Dalla Gazzetta di Mantova
dall'Alto Adige
e da altri quotidiani del Gruppo Espresso
del 14 giugno e successivi
di CLAUDIO GIUA
A colpirmi sono state però le storie raccontate in "Avevamo la luna". Storie di uomini maturi ma vitali e fantasiosi come Adriano Olivetti, storie di ragazzi più "affamati e folli" dei neolaureati che, quattro decenni più tardi, avrebbero ascoltato rapiti l'appello di Steve Jobs a Stanford. Giovanni De Sandre e Gastone Garzera, per esempio, avevano vent'anni quando misero mano al Programma 101 sentendosi "come Michelangelo di fronte al marmo: nessun modello se non la nostra idea di sostituire i metri cubi necessari per contenere la memoria di un calcolatore elettronico con una semplice ed elegantissima corda di pianoforte attorcigliata su se stessa, lungo la quale fissare i microprocessori". Da lì - era il 1960 - al personal computer fu solo questione di tempo.
Il bello è che De Sandre e Garzera trovarono qualcuno che gli diede così retta da far loro concretizzare l'intuizione di mettere al centro del modello protodigitale il software e non la macchina. Si respiravano speranza e fiducia, allora, mentre oggi tocchiamo con mano la delusione e lo scoramento di intere generazioni.
Ci sono in Italia nel 2013 giovani capaci d'essere protagonisti dell'innovazione? Ovviamente sì: a me capita talvolta di conoscerne qualcuno. Ne ho trovati a New York, a Berlino, a Silicon Valley forse più che a Milano. Fuorusciti digitali, sanitari, culturali. Da una parte, è ovvio, l'emigrazione degli affamati e dei folli è conseguenza dell'avvenuta integrazione europea dei cervelli e dei comportamenti. Per studenti universitari e neo-laureati Roma o Helsinki pari sono. A cena con quattro coppie di amici, ho scoperto che tutte hanno uno o due figli all'estero: "Francesca, la più grande, era a Granada per l'Erasmus. Doveva tornare in luglio e invece sta mettendo su una start-up con dei colleghi a Madrid". "Ha fatto così anche Matteo: a Tolosa per un anno, lo hanno chiamato a Ginevra per il master pagato in odontoiatria". È l'Erasmus Generation citata da Enrico Letta nel suo discorso alle Camere.
Da un altro punto di vista, la fuga dall'Italia delle teste migliori è conseguenza sia del prosciugamento delle risorse destinate alla ricerca (un fenomeno iniziato negli anni descritti da Mezza ma perfezionato da ultimo da ministri dell'Istruzione e dell'Università della levatura e della tempra di Moratti, Fioroni e Gelmini), sia della crisi che sta massacrando le scuole a ogni livello.
Se - com'è giusto - la priorità assoluta dell'esecutivo Letta è ridurre la disoccupazione giovanile tout court, la tutela e la promozione dei migliori rischiano di diventare l'eccezione. I nipoti di De Sandre e Garzera potrebbero perfino essere all'altezza dei nonni, ma restando qui - ora - non avrebbero alcuna possibilità di dimostrarlo. "Purtroppo, il miracolo quotidiano nazionale è la sopravvivenza", mi ha detto un giovane manager di Google (un piemontese che lavora a Londra), riferendosi "ai veri eroi italiani, quelli che riescono a mandare avanti la baracca nonostante tutto, gli imprenditori che esportano in condizioni infrastrutturali scoraggianti, i ragazzi che sbarcano a Mountain View con idee eccellenti che a Padova o a Salerno non sanno come farsi finanziare".
Invece, è questo il momento giusto per puntare sull'innovazione e creare le condizioni per ripartire non appena la crisi mollerà la presa. Persino i sindaci neoeletti, quelli del 16-0, possono molto. Alcuni di loro sono abbastanza giovani o hanno l'esperienza internazionale - come Ignazio Marino - per farsi carico di un nuovo ecosistema che aiuti l'imprenditoria creativa ad affermarsi. A loro suggerisco di leggere un altro libro da poco in vendita, "Tech and the City. Startup a New York un modello per l'Italia" di Alessandro Piol e Maria Teresa Cometto. Così, per provare a cambiare.
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Twitter @claudiogiua
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