domenica 7 luglio 2013

Perché eliminare le province potrebbe essere un errore


Da Repubblica dell'8 luglio 2013
di ILVO DIAMANTI


È singolare,  ma  anche significativa, 
la vicenda  delle  Province. Da oltre 
trent’anni si parla di cancellarle 
o,  comunque, di ridurle  sensibilmente.  
Con effetti del tutto opposti. Erano, 
infatti, 95 negli anni Settanta. E già
 si parlava di “abolirle”. Rimpiazzarle 
con altrienti  intermedi.  Negli  anni
Novanta sono salite a 103. E oggi 
sono divenute 110. Il problema è che
 le Province non sono  solamente  
ambiti  amministrativi e di governo loca-
le,  ma  rappresentano,  da sempre, un
riferimento dell’appartenenza  territoriale
 per le persone.

Insieme alle città e almeno quanto
le Regioni, le Province servono a
“posizionarci”  e  a  definirci,  ri-
spetto agli altri “italiani” (come ri-
levano le indagini di Demos pubblica-
te, da quasi vent’anni, su Limes). An-
che perché costituiscono sistemi ur-
bani,  economici,  sociali  e,  in  parte,
politici omogenei. Non a caso le map-
pe elettorali che realizzo, da tanti an-
ni, dopo ogni elezione hanno, come
base, le Province. E, almeno fino a ieri,
hanno riprodotto e dimostrato la so-
stanziale  continuità  dei  comporta-
menti di voto, nel corso del dopoguer-
ra.  Coerentemente  con  i  lineamenti
economici e sociali del Paese. E delle
sue province.

Anche per questo, invece di ridursi e
di accorparsi – o di venire ridotte e riac-
corpate  –le  Province  sono  sensibil-
mente cresciute, di numero, negli ulti-
mi vent’anni. Perché delineano riferi-
menti  importanti della storia e dell’i-
dentità sociale. Ma anche del potere lo-
cale. Perché, inoltre, coincidono con si-
stemi burocratici e assemblee elettive,
molto  difficili  da  ridimensionare,  a
maggior ragione: da cancellare. Tanto
più che le Province hanno svolto e svol-
gono compiti importanti su base loca-
le. Fra gli altri: in materia di trasporti,
ambiente, edilizia scolastica. E poi: co-
stituiscono il principale ambito di “me-
diazione” fra i Comuni e le Regioni. So-
prattutto per i Municipi più piccoli, si
tratta di istituzioni utili ad accorciare le
distanze dai centri del Potere Stato-Re-
gionale. 

Per questo, fin qui, è sempre risul-
tato difficile cancellare le Province o,
almeno,  ridurne  il numero. E,  anzi,
mentre si discuteva in quale modo e
misura ridimensionarle, si sono, in-
vece, moltiplicate ancora. D’altron-
de,  l’abbiamo  detto,  costituiscono
dei luoghi di potere. Dove sono inse-
diati attori politici, burocratici e so-
cioeconomici  poco  disponibili  a
scomparire, oppure a farsi riassorbi-
re in altri ambiti istituzionali e di po-
tere. 

C’è  poi  un’ulteriore  questione.  Ri-
guarda la singolare via del federalismo
all’italiana. Che si è sviluppata, dagli an-
ni Novanta in poi, attraverso il trasferi-
mento  –  e  talora  la duplicazione  – di
compiti e attribuzioni dal Centro alla
Periferia.  Dallo  Stato  agli  enti  locali.
Non solo: attraverso la moltiplicazione
dei centri e dei gruppi di potere locali.
Un processo di cui è stata protagonista
la Lega, ma non solo. Anche per questo
i progetti volti a riassorbire le Province
hanno avuto vita dura. Perché  i mag-
giori  partiti  e,  per  prima,  la  Lega  nel
Nord si sono opposti alla prospettiva di
perdere “potere” e risorse sul territorio.
E, a questo fine, hanno brandito e agita-
to a bandiera del Federalismo. Dell’Au-
tonomia Locale contro lo Stato Centra-
le. 

Non è un caso, dunque, che l’attacco
definitivo (così almeno si pensava) all’I-
talia delle Province sia stato lanciato un
anno fa dal Governo “tecnico” guidato
da Mario Monti. Per ragioni “tecniche”
molto ragionevoli, orientate dalla spen-
ding review. Dalla necessità di revisione
e riduzione della spesa pubblica. Visto
che  il collage provincialista del nostro
Paese è divenuto, come si è detto, sem-
pre più oneroso e dissipativo. Non è ca-
suale l’iniziativa di un anno fa. Dettata
dall’emergenza. Favorita dalla  “debo-
lezza”  politica  degli  attori  che  hanno
agitato  la bandiera del  territorio negli
ultimi  vent’anni.  Per  prima  la  Lega,
affondata,  alle  elezioni  recenti.  E  ag-
grappata alle Regioni del Nord, dove è
ancora al governo. D’altronde, la Que-
stione Settentrionale appare silenziata.
Messa a tacere dalla Questione Nazio-
nale  imposta dalla Ue e dalle autorità
economiche e monetarie internaziona-
li. Che esigono risparmi e tagli. E hanno
rovesciato  le  gerarchie  geopolitiche,
sotto-ponendo la periferia al centro. Il
territorio ai poteri della finanza e della
politica globale.

Così, l’Italia Provinciale è divenuta un
problema. Trattata come un vincolo di
spesa, una variabile dipendente da con-
trollare e orientare. Il governo Monti ha,
dunque, proceduto, dapprima, all’abo-
lizione dei consigli provinciali e, quindi,
a una sostanziosa riduzione del nume-
ro delle Province (da 86 a 50, nelle Re-
gioni a statuto ordinario). Per decreto
legge, con procedura d’urgenza. In ba-
se, appunto, a motivi di emergenza. Pro-
cedure  e motivi  non  compatibili  con
una  materia  “costituzionale”,  com’è
quella  dell’organizzazione  territoriale
dello Stato. Di cui le Province sono par-
te integrante. 

Così l’Italia Provinciale resiste ed esi-
ste ancora. Malgrado i tentativi e la vo-
lontà espressa da molti, diversi soggetti
politici  ed  economici,  di  ridimensio-
narla.  D’altronde,  due  italiani  su  tre
pensano che le province andrebbero al-
meno ridotte. Ma il 60% è contrario ad
abolire la Provincia dove vive (Sondag-
gio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In
altri termini: gli italiani sono disposti a
“cancellare” o, comunque, a mettere in
discussione la provincia degli altri. Ma
non la propria. Per questo non sarà faci-
le, al governo guidato da Enrico Letta,
abolire le Province dal lessico geopoliti-
co nazionale, come prevede il Ddl costi-
tuzionale, approvato nei giorni scorsi.
Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo
l’organizzazione ma, insieme, la stessa
identità territoriale del Paese. Perché le
Province, per citare Francesco Merlo,
sono il Dna «che in fondo ci rende tutti
uguali, provinciali tra altri provinciali».
Da Nord a Sud, passando per il Centro.
E  perfino  a  Roma.  L’Italia:  Provincia
d’Europa e dell’Euro. Un Paese di com-
paesani (come l’ha definito il sociologo
Paolo Segatti). Punteggiato di campani-
li e municipi. Unito dalle differenze. L’I-
talia Provinciale e Provincialista: riflet-
te  tendenze  di  lunga  durata.  Difficil-
mente verrà sradicata da un governo di
larghe intese. E, dunque, di breve perio-
do.

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