venerdì 10 maggio 2013
Il turpiloquio e il bullismo sui social. Ne scrive Saviano
Da Repubblica dell'11 maggio 2013
di ROBERTO SAVIANO
È nato un nuovo diritto. Il diritto ai social
network. Il diritto di poter avere un account, di
poter postare, leggere e commentare. In paesi come
la Cina, Cuba, la Corea del Nord, l’Iran l’accesso ai so-
cial network è vincolato o persino negato. Spesso può
avvenire solo in forme clandestine.
I regimi che hanno represso le primavere arabe
vietavano i social network che, in quel contesto,
sono diventati vettori di informazioni necessa-
rie alle proteste e simboli di una rinascita demo-
cratica.
Ma ogni diritto ha delle regole. E nessuno dovreb-
be sentirsi fuori luogo nell’esercitarlo, nessuno do-
vrebbe essere costretto a fare lo slalom tra insulti o
diffamazioni. Eppure è ciò che accade sempre più
spesso. Enrico Mentana annuncia di voler andar via
da Twitter per i troppi insulti ricevuti. Usa la metafo-
ra del bar. Se il bar che di solito frequenti inizia a es-
sere luogo di ritrovo per persone che non ti piaccio-
no, che fai resti o cambi bar? Davide Valentini, un gio-
vane documentarista, fa una riflessione interessan-
te. Secondo lui Twitter innesca l’effetto Gialappa’s
band. Molti commenti intendono portare all’atten-
zione dei propri follower ciò che si ritiene stupido più
che interessante, e lo si fa con parole cariche di sar-
casmo. L’effetto desiderato, e ottenuto, è far sentire
i follower particolarmente intelligenti mentre frui-
scono di un contenuto considerato basso. Quanti
non hanno mai visto il “Grande fratello”, ma adora-
vano “Mai dire Grande fratello”?
Su Twitter ci si sforza di trovare la battuta brillan-
te, spesso feroce. O il tweet è cinico o viene conside-
rato scontato. Ciò che non è crudele, disincantato,
diventa bersaglio della supponenza collettiva. Il po-
litically uncorrect detta legge, l’aberrazione è consi-
derata di culto, ogni provocazione – anche la più stu-
pida – è cool perché rompe gli schemi. Una logica
neocinica sembra aver preso il sopravvento su ogni
cosa.
Ma questa è una degenerazione del mezzo, perché
Twitter nasce per comunicare: è una piattaforma che
mette in connessione chiunque con chiunque. Tut-
to è aperto. Puoi seguire chi vuoi, puoi leggere cosa
scrive Obama, Lady Gaga o il tuo collega, quello che
ha la scrivania di fronte alla tua. La capacità di poter
assistere in tempo reale a ciò che accade nel quoti-
diano e comprendere i punti di vista degli altri, con-
dividerne le conoscenze. Retwitti se trovi interes-
sante una notizia e credi valga la pena sottoporla al-
la tua comunità. Crei dei topic, e puoi farlo chiunque
tu sia. Poi ti capita di essere retwittato da chi ha cen-
tinaia di migliaia di follower e il tuo pensiero inizia a
viaggiare.
Ma può anche accadere che in una piazza affolla-
ta, se si è a corto di contenuti o manca la capacità di
sintesi (la regola su Twitter consiste nel mantenersi
nei 140 caratteri, l’sms di un tempo), si urla per esse-
re ascoltati. Quando il pensiero si semplifica e si ri-
duce al grado zero, a volte c’è posto solo per l’espres-
sione radicale o la battuta estrema. La serietà è ba-
nale, il ragionare scontato. Dunque ecco l’insulto.
Chi ti insulta su Facebook non riesce a fare lo stesso,
però, quando ti incontra di persona perché non ha il
coraggio di mettere la faccia su uno sfogo personale
che si alimenta di luoghi comuni e leggende metro-
politane.
Ho letto che se un post presenta un certo numero
di commenti negativi, chi leggerà quel post sarà na-
turalmente influenzato da quei commenti. Le criti-
che sono sempre benvenute, gli insulti no. Dipende
da noi dargli o meno diritto di cittadinanza. Face-
book e Twitter consentono di poter eliminare l’in-
sulto, bannandolo, cioè mettendolo al bando. Fa
parte delle regole del gioco. Non credo sia corretto
escludere chi fa un ragionamento diverso da quello
proposto, chi critica con linguaggio rispettoso è una
risorsa. Ma è giusto bannare chi usa i commenti per
fare propaganda, chi ripete sempre lo stesso concet-
to quasi a fare stalking, chi – ad esempio – dice di con-
servare una bottiglia di champagne da aprire il gior-
no della mia morte, chi dice di avermi visto a bordo
di una Twingo rossa o una Panda verde a Caivano o a
Maddaloni sottintendendo che non è vero che vivo
sotto protezione.
Agli estremisti della rete che obiettano: “ma que-
sta è censura”, rispondo che chi vuole può aprire una
sua pagina per insultarmi, ha l’intero infinito web
per farlo. È che in realtà l’insultatore vuole vivere del-
la luce riflessa dell’insultato.
Eppure è semplice comprendere come non ci sia
nulla di più dannoso dell’insulto: nulla garantisce
più sicurezza al potere, inteso nel senso più ampio,
se tutto il linguaggio della critica si riduce al turpilo-
quio, alla cosiddetta “shit storm”, alla tempesta di
merda di messaggi senza contenuto rilevante.
Ecco perché la necessità di regole non può passa-
re per censura. Comprendo che la libertà della rete
non può essere strozzata da vincoli, comprendo che
i vincoli possono diventare pericolosi perché peri-
colosa è la valutazione: cosa è legittima critica o cosa
è diffamazione? Ma la gestione delle regole non è un
vincolo, è funzionale al mezzo, alla sua sopravviven-
za, all’interesse che gli utenti continueranno o meno
a nutrire. Per questo Enrico Mentana credo si sbagli
quando dice che o sei dentro o fuori e che non si ban-
na. Bannare è decidere di dare un’impronta al pro-
prio spazio: è esercitare un proprio diritto.
L’educazione nel web, anzi l’educazione al web,
sta ancora nascendo. Scegliere di usare un linguag-
gio piuttosto che un altro è fondamentale. Ogni con-
testo ha il suo linguaggio e quello dei social network
per quanto diretto non è affatto colloquiale. Si nu-
tre della finzione di parlare in confidenza a quattro
amici, – il che giustificherebbe ogni maldicenza,
ogni cattiveria – ma in realtà tutto quello che si di-
ce è moltiplicato immediatamente all’infinito, ed
è quindi il più pubblico dei discorsi. Non si tratta di
essere ipocriti o politicamente corretti (espressione
insopportabile per esprimere invece un concetto
colmo di dignità), ma di comprendere che usare un
linguaggio disciplinato, non aggressivo, costruisce
un modo di stare al mondo. I linguisti Edward Sapir
e Benjamin Whorf hanno teorizzato la relatività lin-
guistica secondo cui le forme del linguaggio modifi-
cano, permeano, plasmano le forme del pensiero. Il
modo in cui parlo, le cose che dico, e soprattutto co-
me le dico, le parole che uso, renderanno il mondo in
cui vivo in tutto simile a quello connesso alle mie pa-
role. Se uso (non se conosco, ma proprio se uso) cen-
to parole, il mio mondo si ridurrà a quelle cento pa-
role. Noi siamo ciò che diciamo. Quindi il turpilo-
quio, l’insulto o l’aggressività costruiscono non una
società più sincera ma una società peggiore. Sicura-
mente una società più violenta. I commenti biliosi
degli utenti di Facebook e Twitter portano solo bile e
veleno nelle vite di chi scrive e di chi legge. Purtrop-
po questa entropia del linguaggio sta contagiando
anche la comunicazione politica, sempre all’inse-
guimento della grande semplificazione, della chiac-
chiera divertente e leggera, della battuta risolutiva.
Spesso parole in libertà, senza riflessione, gaffe con-
tinue alle quali bisogna porre rimedio. La verità è che
se ripeti n pubblico e fesserie dette n privato non sei
onesto e gli altri ipocriti, sei semplicemente maledu-
cato e in molti casi irresponsabile.
Non è libertà – tantomeno libertà di stampa – in-
sultare. È diffamazione. Una parte degli interpreti
talmudici, paragonano la calunnia all’omicidio. E se
penso a Enzo Tortora, non credo sbagliassero di mol-
to. La democrazia è responsabilità e sono convinto
che le regole e la marginalizzazione – non la repres-
sione – della violenza e della trivialità salveranno la
comunicazione sui social network. Chi vuole usare il
network solo per fare bullismo mediatico potrà apri-
re l suo personale fight club, senza nutrirsi – come un
parassita – della fama degli altri.
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