Sul Foglio del 3 maggio 2913
di Adriano Sofri
In calce alla lettera del detenuto yemeni-
ta a Guantánamo pubblicata lo scorso 14
aprile dal New York Times si legge qualche
centinaio di commenti. Uno dice: “Io con-
cordo col senatore McCain, che fu lui stes-
so vittima di tortura. Quando un altro sena-
tore gli disse: ‘Perché dovremmo preoccu-
parci di questi terroristi?’, McCain replicò:
‘Non si tratta di chi sono loro, ma di chi sia-
mo NOI. Noi siamo gli Stati Uniti d’Ameri-
ca, e gli Stati Uniti d’America non tortura-
no la gente”.
Nella lettera, Samir Naji al Hasan Moq-
bel, 35 anni, descrive minutamente il tor-
mento dell’alimentazione forzata attraver-
so il sondino nasogastrico. (Ne ha scritto
qui Daniele Raineri lo scorso 17 aprile).
“Sono detenuto a Guantánamo da 11 an-
ni, non ho ricevuto alcuna imputazione,
non ho avuto alcun processo… Sostennero
che fossi una ‘guardia’ di Osama bin Laden,
una cosa insensata, mi sembrava uscita dai
film americani che mi piaceva guardare.
Nemmeno loro sembrano crederci più…
Non dimenticherò mai la prima volta che
mi hanno infilato il tubo nel naso. Mi lega-
no alla sedia nella mia cella due volte al
giorno. Non so mai quando arriveranno, a
volte vengono durante la notte... Il 15 mar-
zo ero malato nell’ospedale della prigione
e mi sono rifiutato di mangiare. Una squa-
dra della Extreme Reaction Force /poi ri-
battezzata eufemisticamente Forcible Cell
Extraction: estrazione energica…/ ha fatto
irruzione. Mi hanno legato mani e piedi al
letto e inserito a forza una flebo nella ma-
no. Ho passato 26 ore in questo stato, lega-
to al letto. Non sono potuto neanche anda-
re in bagno. Mi hanno messo un catetere,
un’azione dolorosa, degradante e non ne-
cessaria. Non mi è stato permesso neanche
di pregare… Durante una nutrizione forza-
ta l’infermiera ha spinto sbrigativamente il
tubo in profondità dentro il mio stomaco.
Ho pregato di sospendere, si è rifiutata.
Stavano finendo, quando un po’ di quel ‘ci-
bo’ si rovesciò sul mio abito. Chiesi di cam-
biarlo, ma la guardia mi negò questo estre-
mo appiglio di dignità”.
La cosa di cui si sta parlando è la nutri-
zione forzata. (Quella, mutatis mutandis,
cui una legge di Stato avrebbe voluto assog-
gettare anche tutti i cittadini liberi del no-
stro paese).
Avrete letto i racconti sui viaggi nei vago-
ni piombati, sull’umiliazione terribile dei
bisogni corporali. Parlai con molti vecchi
ceceni che avevano subito la deportazione
staliniana in Kazakistan o in Siberia. Non
sono cose che si possano dire, rispondeva-
no. Abbassavano la testa e sussurravano
che molte persone si facevano morire sui
treni per la vergogna.
Dice una mia amica: “Ho letto che il New
York Times ha pagato l’articolo al detenu-
to yemenita (la tariffa standard: 150 dollari)
e che quei soldi saranno spediti alla sua fa-
miglia nello Yemen. Confesso che ho pensa-
to, sentendomi poi molto in colpa: chissà
cosa ne sarà di quei soldi, ci compreranno
il cibo per i bimbi o ci costruiranno una
bomba come quella che è scoppiata a Bo-
ston, che costa 100 dollari?”.
Già. Il dilemma breve della mia amica
serve a ricordarsi, oltre che dei principii,
della differenza fra prevenzione e repres-
sione. Coi detenuti senza imputazioni di
Guantánamo, supposti pericolosi e resi pe-
ricolosi, la differenza è bruciata. La repres-
sione vuol essere preventiva. Ma il cibo per
i bimbi non è, a chi pensi così, una vera al-
ternativa: nutrite i bambini a Gaza o in Li-
bano o in Pakistan, e forse qualcuno di lo-
ro, senza nemmeno aspettare d’esser cre-
sciuto abbastanza, si metterà addosso una
cintura esplosiva e si farà scoppiare in
mezzo a una folla di “nemici”. Ma non pos-
siamo affamare preventivamente mezzo
mondo – e più. E’ già affamato abbastanza
di suo. Non possiamo affamarne nemmeno
uno solo, abbastanza da rimandarlo al
Creatore.
Intanto, però, ricordiamoci del mondo in
cui viviamo ordinariamente, del nostro an-
golo di pianeta. Nel cantone di Zurigo, il 16
aprile, un carcerato comune, cittadino sviz-
zero di 32 anni, condannato nel 2009 per
tentato omicidio, è morto nell’ospedale in
cui era stato trasferito dopo uno sciopero
della fame iniziato nello scorso gennaio.
Aveva rifiutato ogni intervento medico, e la
sua volontà è stata riconosciuta legittima e
rispettata.
Il 30 aprile, negli Stati Uniti, mentre il
presidente Obama tornava a dichiarare il
proprio desiderio di chiudere Guantána-
mo, il presidente dell’American Medical
Association protestava contro la nutrizione
forzata: “Ogni paziente ha diritto di rifiu-
tarla anche se ne dipenda la sua vita”.
Il 21 aprile è stato l’Independent a pub-
blicare il testo di un altro detenuto di
Guantánamo, Shaker Ameer, saudita, 45 an-
ni. Anche lui è lì da undici anni, è stato pro-
sciolto da ogni accusa nel 2007. Scrive fra
l’altro: “La Grande menzogna orwelliana è
l’idea che tenere 166 prigionieri a Cuba
serva a tenere l’America al sicuro dall’e-
stremismo… Su 779 detenuti dal 2001, 613
sono stati rimandati a casa, e gli Stati Uni-
ti hanno prosciolto 86 dei prigionieri che
sono ancora buttati qui dentro. Complessi-
vamente, più del 90 per cento del totale,
che gli stessi americani ammettono di aver
detenuto calunniosamente”.
Perché Obama si è rassegnato a una
sconfitta come la mancata chiusura di
Guantánamo? Ha forse temuto l’impopola-
rità, o ha ceduto alle pressioni degli spe-
cialisti dell’antiterrorismo – anche a un
Presidente americano si può dire: Ragaz-
zo, lasciaci lavorare. C’è una spiegazione
più forte: la paura che qualcuno dei prigio-
nieri, liberato, possa compiere attentati
cruenti contro cittadini americani. (Una
specifica moratoria alla riconsegna di de-
tenuti yemeniti è stata decisa da Obama).
Una simile eventualità gli costerebbe ca-
rissima. Si può anche considerare un ver-
sante umano, non strumentale, della deci-
sione. Se per suo ordine venissero libera-
ti prigionieri, e divenissero autori di atten-
tati contro cittadini americani (o del mon-
do), gliene cadrebbe addosso una respon-
sabilità grave da portare. Suggerisco di
confrontare questo dilemma con la routine
dei nostri magistrati di sorveglianza, che
(con eccezioni anche rilevanti) sono spa-
ventosamente restii ad applicare le leggi
che li autorizzano, e le circolari ministe-
riali che li sollecitano, a concedere ai de-
tenuti misure come i permessi, il lavoro
esterno, la detenzione a domicilio. Le sta-
tistiche mostrano inequivocabilmente co-
me queste misure riducano in proporzio-
ne assai maggiore le recidive. Ma la buro-
crazia dei magistrati di sorveglianza, ado-
ratrice della pigrizia e però vanitosa, è so-
prattutto attenta a sventare la cattiva stam-
pa. Un detenuto in semilibertà che com-
metta un delitto capace di suscitare indi-
gnazione e raccapriccio costa caro. Anche
nel nostro caso, il giudice, o la giudice, dai
quali dipende la libertà piena o relativa
dei detenuti, possono essere frenati dalla
preoccupazione sincera per il rischio di
azioni gravi di cui porterebbero la respon-
sabilità e il rimorso, anche se le statistiche
dichiarino irrilevanti gli episodi di tra-
sgressione. Non c’è paragone fra il potere,
e la responsabilità, del presidente degli
Stati Uniti e dei nostri magistrati di sorve-
glianza: tuttavia il meccanismo psicologico
è simile. C’è un’altra, essenziale differen-
za. Che i nostri magistrati hanno a che fa-
re, almeno formalmente, con detenuti di
cui è stato accertato un reato. Obama de-
cide di persone detenute senza imputazio-
ni né processo regolare, e in alcuni casi di
accertata non colpevolezza, benché se ne
dichiari una pericolosità. Nel caso di
Guantánamo, la durata e le condizioni di
detenzione sono così brutali che bastereb-
bero da sole a fare di chi le subisce, fosse
anche la più innocente delle persone, un
pericoloso vendicatore. Si può dire che
questo è un caso esemplare di una violen-
za che si vuole legale ed eccita una violen-
za opposta, al punto di vietare a se stessa
ogni ritirata. Un sequestro di persona che
E’ un circolo vizioso, dal quale si potreb-
be uscire solo se le pressioni di opinione
per la chiusura di Guantánamo diventasse-
ro più forti delle pressioni dei poteri per
tenerla aperta. Ipotesi remota.
Ma ecco che la paradossale casistica an-
titerrorista offre un’altra spettacolare con-
traddizione. L’amministrazione di Guantá-
namo tiene forzatamente in vita persone
che considera nemiche, impedisce violen-
temente loro di morire. Alla rovescia che
nella pena di morte, li condanna alla pena
di vita, per così dire. Morti, la danneggereb-
bero più che da vivi. All’origine di questa
ondata di scioperi della fame – quasi cen-
to – sta un ennesimo sequestro di Corani, e
forse la morte di un altro detenuto digiu-
natore, yemenita anche lui, il 6 febbraio.
Io conosco una galera, è ripugnante, fe-
roce, normale. Il mio solo vantaggio è che
sono più di un altro spinto a immaginare
come possa essere Guantánamo. “ Siamo
in tanti a digiunare ora, che non ci sono
abbastanza operatori dello staff medico
qualificati per eseguire le nutrizioni for-
zate; niente avviene a intervalli regolari.
Alimentano le persone in continuazione
per tenergli dietro”. Poi leggiamo che a
Guantánamo, essendo i digiunatori a ol-
tranza arrivati al numero di 100 su 166 (se-
condo uno dei difensori, sono addirittura
136), sono stati fatti affluire 42 nuovi me-
dici e infermieri per far fronte all’emer-
genza. Io chiudo gli occhi, e provo a vede-
re 92 celle con 92 corpi legati mani e pie-
di ai loro giacigli o alle loro sedie, e cin-
quanta medici e infermieri che corrono
dall’uno all’altro a spingere a forza il son-
dino nei 92 nasi e a infilare l’ago nelle 92
mani, una catena di montaggio della so-
pravvivenza e di smontaggio della vita e
dell’umanità. Non so se sia mai esistito
qualcosa del genere. Di peggiore sì, di più
brutale ancora, di più malvagio, di più. Ma
una cosa così, no.
E adesso completiamo l’impressione sul-
la contraddizione dei carcerieri che tengo-
no forzatamente in vita i loro nemici giura-
ti, se non altro perché li hanno catturati
quando non era ancora arrivato il tempo
dei droni, della eliminazione anonima e da
lontano, senza l’odore dei corpi. I combat-
tenti “kamikaze” avevano inventato su lar-
ga scala, a leve ininterrotte, l’arma della
propria morte. Come si può intimidire e re-
primere chi non ha paura di morire, e an-
zi vi aspira? E’ intervenuto qui un contrap-
passo al dannato culto americano per la pe-
na di morte. Li si fa vivere a forza. No, non
vivere, sopravvivere. L’alternativa di quei
prigionieri senza processo non è fra la vita
e la morte: è fra la morte e la sopravviven-
za non voluta. Il suicidio è vietato loro, an-
che quel più disperato e tenace suicidio
che consiste nel lasciarsi morire. Chi riten-
ga di avere un’obiezione insuperabile al di-
ritto delle persone a suicidarsi, il diritto ri-
conosciuto nel cantone di Zurigo al detenu-
to morto di inedia, ha qui un caso concre-
to col quale misurare la propria intransi-
genza. A Guantánamo si tengono persone, a
tempo illimitato, in una condizione tale da
far loro preferire la morte, e proibendo lo-
ro di morire.
Postilla. Quello che succede nell’estremo inferna-
le di Guantánamo, succede, più vicino e
mortificato, anche in una comune galera
nostra. Che si trattino i detenuti in modo ta-
le da indurli a desiderare il suicidio – e in-
fatti si suicidano. Dopo si protesta che biso-
gnava impedirlo con una vigilanza più oc-
chiuta. Una vigilanza occhiuta ed efficace,
che impedisca a chi vuole suicidarsi di far-
lo, è impossibile: e se fosse possibile – cel-
la nuda, detenuto nudo, pareti imbottite,
occhio del sorvegliante o della telecamera
sempre acceso – toglierebbe al sorvegliato
qualunque desiderio che non fosse quello
di ammazzarsi, o di essere ammazzato. Al-
la prima distrazione.
Non penso che i nemici non esistano. Il
Vecchio Testamento è tutto una storia di
nemici. Quanto al Nuovo, dice che bisogna
amarli, non dice che non esistono. Ci si può
arrovellare senza fine attorno a questa apo-
ria. L’altra guancia è una meravigliosa me-
tafora, ma non riesce ad avere ragione del-
la realtà: non per me, almeno. Non per
esempio quando la prima guancia e la se-
conda non sono le tue, ma quelle di un’al-
tra o un altro, e quegli altri ti sono affida-
ti, o finiscono feriti sulla tua strada. Mi di-
co che un criterio – uno dei tanti, uno par-
ticolare, non universale, non risolutivo – è
che non dovrai mai essere così duro col tuo
nemico che la vergogna e la compassione
suscitate dal tuo modo di trattarlo ecceda-
no e quasi cancellino le sue malefatte, per
enormi che siano. (A volte, quel trattamen-
to è inflitto a un nemico senza malefatte –
ulteriore incidente). Questo succede con i
prigionieri di Guantánamo. E non invo-
cherò un calcolo economico: Guantánamo
che costerà, è già costata, agli Stati Uniti –
e non solo a loro, “a noi” – più di una bat-
taglia perduta, eccetera. Piuttosto la condi-
zione umana, che non è, a differenza dal-
l’economia, relativa.
A Guantánamo sono detenuti all’infinito,
senza il diritto a un processo giusto, 166 uo-
mini. Stanno fuori dalla geografia degli Sta-
ti e del diritto, su un brandello di Cuba che
è extraterritoriale e extralegale, un altro
pianeta. Ma sono umani.
In quella condizione estrema, a mani nu-
de e corpi esausti, quei prigionieri si sono
ribellati lo scorso 14 aprile contro un nuo-
vo trasferimento da un dormitorio comune
a celle separate. La ribellione è stata seda-
ta a colpi di “proiettili non letali”.
Mi sono arrovellato attorno alla tortura
da quando ero ragazzo. Nella educazione
dei ragazzi della mia generazione teneva
una parte rilevante, difficile da immagina-
re oggi, l’aspettativa di una prova che mi-
surasse il coraggio fisico, la lealtà, la fe-
deltà all’ideale e alla propria comunità. Al-
meno nel mio caso, prima che alla Resi-
stenza e alla sinistra, quell’educazione era
improntata al Risorgimento e all’irredenti-
smo, e a modelli di abnegazione dal segno
politico indeterminato: i ragazzi dei rac-
conti mensili del libro “Cuore” (ancora) o
i ragazzi della via Pal, per esempio. Si sa-
rebbe stati coraggiosi di fronte al nemico?
Si sarebbe stati dignitosi e fieri nelle ma-
ni del nemico? Si sarebbe avuta la forza di
resistere, e di non tradire i propri compa-
gni e la propria fede? Riassumo così il noc-
ciolo di un’educazione maschile del Dopo-
guerra, che poteva diventare una tensione
intima dell’autoformazione personale. Su
quell’idealismo generico e però sentito co-
me un destino si innestavano poi le cono-
scenze contemporanee e le prime esperien-
ze civili. Io avevo 16 anni quando uscì per
Einaudi “La tortura” di Alleg. In quell’edu-
cazione – nel mio caso, almeno, ma non cre-
do che fosse raro – prevaleva una dimensio-
ne “militante”, che avrebbe assunto forme
diverse e via via più definite, ma serbando
quel fondo, frutto di una guerra calda appe-
na conclusa, di una guerra fredda virulen-
ta, e di molte guerre locali scandalose in
corso, coloniali, civili, partigiane.
Era la premessa per un piccolo racconto
personale: ho fatto un’esperienza, benché
eccentrica, di tortura. Ho agonizzato a not-
te fonda in una cella di carcere, dopo che
mi si era spezzato l’esofago. La mia cella era
un cubicolo di due metri e mezzo per uno e
mezzo, con un cesso alla turca separato dal
cuscino della branda da un muricciolo di 30
centimetri. Su quel cesso sono restato a gia-
cere, svenuto e poi incapace di muovermi,
nel vomito, nel sangue, nelle feci e nell’uri-
na. Assieme al dolore, mi batteva nella
mente la frase: “Inter faeces et urinam na-
scimur”, e il suo complemento, inter faeces
et urinam moriamo. Trovai la forza di bat-
tere alla parete, i miei vicini chiamarono al
soccorso, fui trasportato all’ospedale. Ebbi
pochi brevi momenti di lucidità prima d’es-
sere operato d’urgenza e posto in coma in-
dotto, e ci restai per molti giorni. Tre gior-
ni dopo l’intervento, fui tracheostomizzato.
Clinicamente, ero del tutto privo di cono-
scenza. Tuttavia, man mano che una specie
di conoscenza distorta affiorava – non potet-
ti parlare per un mese, e le mie mani ave-
vano disimparato a scrivere – l’effetto degli
anestetici possenti che avevo ricevuto, spe-
cialmente il curaro, credo, avevano indotto
in me una spaventosa paranoia. Mi trovavo
nel luogo di un sequestro, nelle mani di tor-
turatori segreti. Essi non sapevano che mi
accorgessi della loro presenza e delle loro
manovre. Più tardi avrei scherzato con loro
di quel terribile delirio. Il capo della mia
rianimazione, una giovane persona meravi-
gliosa con una gran barba nera, era per me
Verchovenskij. Lo scopo di quella banda
era di torturarmi, umiliarmi e costringermi
a tradire me stesso. In un sotterraneo adia-
cente alla mia camera di tortura erano se-
polti vivi i miei compagni di carcere, obbli-
gati a stare ammassati nei loro escrementi.
Per solidarietà con loro, io dovevo riuscire
a rifiutarmi di defecare e urinare, come si
pretendeva invece da me per umiliarmi.
Sentivo che se avessi saputo resistere, sa-
rebbero tornati a uccidermi. Arrivai a cre-
dere che i miei famigliari fossero, perché
ingannati o perché corrotti, complici della
persecuzione. Muto com’ero, ero certo di
raccontare loro tutti i dettagli della congiu-
ra contro me e i miei compagni, e non pote-
vo rassegnarmi alla loro inerzia. C’era un
infermiere anziano che veniva regolarmen-
te a malmenarmi, e chiedevo a mio figlio di
comprare dei gamberoni per corromperlo e
salvarmi dalle sue brutalità. (In carcere i
gamberoni erano la posta prediletta delle
partite di calcio o di carte: un giorno alla
settimana si potevano ordinare alla spesa).
Quel delirio era così vivido – mai nella vi-
ta, affatto alieno come sempre fui a ogni
droga, ho sperimentato una simile lucidità
– che ancora stasera mi pare che mio figlio
mi abbia salvato in cambio dei gamberoni.
Da allora (sono passati più di sette anni) ho
un’idea precisa, terribile e affascinata del-
la paranoia. Ma anche della tortura. In quei
primi giorni doveva essere escluso che
avessi qualunque percezione della realtà
esterna, e tuttavia io fui aggredito da uomi-
ni bianchi che mi immobilizzarono e volle-
ro sgozzarmi, e solo in extremis, con una so-
vrumana ribellione, riuscii a difendermi
con un braccio (i miei arti e tutto il mio cor-
po erano immobili) e a deviare una pugna-
lata alla mia gola. Fu, credo, il mio modo di
percepire la tracheostomia e di battermi
contro di essa. La lunga vicenda clinica che
attraversai (fui fuori pericolo di vita solo a
mesi di distanza e altri interventi) fu per
me, per tutto quel primo periodo, una orri-
bile esperienza di tortura: ed era una cura
mirabile per dedizione e per bravura di
tante persone.
In questo mio modo, provo a stare nella
pelle nuda di un torturato. Di uno che non
delira, che ha ragione di aspettare in ogni
istante del giorno e della notte un persecu-
tore spietato e arbitrario. Di un corpo in to-
tale balia d’altri, che giocano col suo dolo-
re e la sua mortificazione, che lo spingono
fino alla soglia della morte per negargliela
e tornarne indietro, così da non rinunciare
al proprio gioco. Il gioco degli aguzzini si
addestra nel rapporto che gli umani, a vol-
te anche i bambini, instaurano con gli ani-
mali catturati e tormentati. Non riesco a
credere che la tortura sia un mezzo, maga-
ri penoso e angoscioso, per un fine superio-
re, per avere notizie, per salvare vite minac-
ciate. Io credo che la tortura sia il compia-
cimento che prende la mano di chi ha in
proprio potere pieno un corpo altrui, un al-
tro ridotto a nudo corpo. E’ come quando si
avverte a non lasciare che il proprio anima-
le da preda prenda gusto al sangue, perché
non si riuscirà più a farlo tornare indietro.
Il torturatore che abbia infierito, da solo o
più probabilmente in gruppo, sul proprio
ostaggio, non potrà più accettare che esso
torni alla vita. Non potrà sopportare che
cammini nel mondo qualcuno che conosca
un simile segreto di lui. E’ per questo che
in certi stupri di banda le torture più effe-
rate prendono il sopravvento sulla stessa
bruta soddisfazione sessuale e si concludo-
no con l’assassinio della vittima. D’altra
parte nella tortura il fantasma della sessua-
lità entra sempre violentemente.
E ora torniamo a Guantánamo.
Lo Human Rights Report 2012 del Dipar-
timento di Stato Usa sull’Italia –pubblica-
to lo scorso 19 aprile – è un documento mol-
to interessante. E’ ampio e dettagliato. Li-
mitiamoci qui all’iniziale indice ragionato.
“I problemi maggiori riguardo ai diritti
umani comprendono la costante incarcera-
zione dei detenuti in attesa di giudizio con
i criminali condannati, le condizioni di vi-
ta al di sotto della soglia accettabile in car-
ceri sovraffollate e centri di detenzione per
immigranti privi di documenti, e il pregiu-
dizio generale che diventa in alcune situa-
zioni locali maltrattamento dei Rom, esa-
sperando la loro esclusione sociale e ridu-
cendo il loro accesso all’educazione, alle
cure sanitarie, all’occupazione e ad altri
servizi sociali.
Altri problemi per i diritti umani com-
prendono un impiego eccessivo e abusivo
della forza da parte della polizia in alcuni
episodi, un sistema giudiziario inefficiente
che non offre sempre una giustizia rapida,
la corruzione governativa, la violenza e le
molestie contro le donne, lo sfruttamento
sessuale dei minori, e il vandalismo antise-
mita. Ci sono casi di traffico per lo sfrutta-
mento sessuale e del lavoro. Gli osservato-
ri hanno riferito anche di casi di violenza
contro persone lesbiche, gay, bisessuali e
transgender (Lgbt) e di discriminazione del-
la forza lavoro fondati sull’orientamento
sessuale. Il lavoro minorile e lo sfruttamen-
to di lavoratori irregolari costituiscono an-
ch’essi un problema, specialmente nel sud”.
Nel Rapporto si sottolinea altresì l’as-
senza nel codice italiano del reato di tortu-
ra “e di altri trattamenti o punizioni crude-
li, inumane o degradanti”.
Si legge tutto ciò con attenzione e ap-
prezzamento. Imputati in attesa di giudizio
trattati come i condannati, condizioni car-
cerarie indegne, lentezza dei processi, as-
senza del reato di tortura… D’un tratto
però la memoria di chi legge inciampa in
quel nome: Guantánamo. Dal pulpito di
Guantánamo. Ecco un esempio dello scot-
to che gli Stati Uniti pagano alla supposta
convenienza di quel carcere extraterrito-
riale ed extralegale. Dal punto di vista del-
l’Italia, è poco più di un paragone che to-
glie credibilità alla fonte americana, e re-
ciprocamente offre un alibi alle malefatte
della giustizia italiana. Ma proviamo a im-
maginare la portata del paragone in Ye-
men, o in Afghanistan, o in Pakistan (quan-
to alla Cina, pubblica da 15 anni per ritor-
sione un suo “Human Rights Record of the
United States”, affare di propaganda uffi-
ciale: il cui pezzo forte sono naturalmente
Guantánamo Bay e le strutture di detenzio-
ne della Cia). Guardata dai luoghi del mon-
do in cui cova il terrorismo islamista,
Guantánamo costa lo scandalo dei cuori,
già più di una battaglia perduta.
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