L'EDITORIALE DI FRANCESCO SU REPUBBLICA DEL 12 APRILE , MOLTO CRITICO NEI CONFRONTI DI ANTONIO INGROIA
di Francesco Merlo
Sembra il giudice che Silvio Berlusconi si inventa per screditare tutti i giudici. E spiace moltissimo sentire gli sghignazzi volgari della destra – “Vai a lavorare” era il titolo del Giornale di ieri – non perché Antonio Ingroia non li abbia colposamente attratti, ma perché l’Antimafia non merita il danno epocale che le sta procurando Ingroia. Anche come perdente, infatti, questo giudice siciliano si sta dimostrando terribilmente inadeguato quale che sia l’esito finale della sua triste parabola di autodistruzione: la politica, la magistratura, la direzione dell’Equitalia siciliana e non come lui ingordamente avrebbe voluto, tutte e tre le cose.
E cominciamo col dire che sembra un personaggio di “Benvenuti al Nord” quando disprezza la sede giudiziaria di Aosta, assegnatagli dal Csm perché è la sola dove lui non si era presentato alle elezioni e dunque l’unica disponibile per regolamento: «Ci vado volentieri: tre o quattro giorni, ma in villeggiatura, a passeggiare, non a perdere tempo, a scaldare la sedia ». È strano che i magistrati di Aosta, trattati come pensionati alle terme di Montecatini, non abbiano chiesto al Csm di tutelare la loro reputazione come ha fatto, per molto meno, il procuratore Giancarlo Caselli dopo le dichiarazioni in tv del presidente del Senato Piero Grasso. L’idea che ad Aosta i giudici si misurino con l’ozio muscolare è un pregiudizio “enantiodromico” direbbero gli psicoanalisti, che si rovescia cioè nel suo opposto: i giudici aostani si rinvigoriscono con atletiche e salutari passeggiate al freddo come i pm di Palermo, indolenti e sciroccati, si dissipano in sbadigli al sole e lunghissime pennichelle nel meriggio. È – di nuovo! – roba da (inconsapevole) satira antropologica, terroni-polentoni, caldo-freddo, insomma alimento per Crozza, che già in campagna elettorale, aveva felicemente fatto di Ingroia una maschera della commedia all’italiana.
Questo pubblico ministero che a Palermo aveva condotto e ancora aveva in mano inchieste importantissime e delicatissime, tra cui la famosa trattativa dello Stato con la mafia, le lasciò tutte contro ogni logica investigativa e giudiziaria, prima per un (brevissimo) incarico internazionale in Guatemala del quale si ricordano solo le interviste (cult) sotto le palme. Poi ha fondato un movimento politico con lo scopo dichiarato di fare la rivoluzione e si è candidato al Parlamento e alla presidenza del Consiglio. Come si sa, Ingroia non è stato eletto e la sua “Rivoluzione civile” non è rappresentata né alla Camera né al Senato.
Ma il punto non è questo, perché si può vincere anche perdendo. Anzi, la storia d’Italia è piena di sconfitti di successo al punto che l’aristocrazia dei perdenti è forse la sola nobiltà prodotta dalla classe dirigente e sto parlando innanzitutto di Falcone e Borsellino, ai quali non solo Ingroia apertamente e incongruamente si ispira. Ma anche, più modestamente, sto parlando dei vari Segni, Martinazzoli, Occhetto e poi Veltroni… che hanno “rivoluzionato civilmente” per dirla con Ingroia il sistema e i partiti, e ovviamente parlo di Pannella e Bonino, che hanno cambiato la civiltà dei diritti e sono sempre stati sotto lo zero virgola… Insomma questi perdenti sono, per merito e grandezza personali, l’unica realtà blasonata, visto che l’Italia vincente, pur con qualche ragguardevole eccezione, non è riuscita a produrre vere leadership e ora neppure un governo legittimato e sicuro.
Invece, anche come perdente Ingroia sembra disegnato dalla penna del Sallusti di turno che sberleffa in lui l’intera magistratura. A Berlusconi non pare vero che gli venga consegnato il fiero pasto e ogni tanto solleva la bocca come il conte Ugolino per proporre le solite riforme contro l’indipendenza della magistratura, la gerarchizzazione degli uffici, l’elettività del pubblico ministero, la separazione delle carriere, il doppio consiglio superiore. Il protagonismo e la vanità di Ingroia diventano l’alibi dei suoi tentati delitti contro la giustizia. E meno male che il Csm se n’è accorto e se ne sono accorti anche i colleghi più amici di Ingroia, che è la punta estrema di una grande confusione di ruoli con il giudice che diventa, nel bene e nel male, il politico, lo storiografo, il sociologo, il criminologo e ora persino l’esattore.
Come si sa, il governatore della Regione Sicilia Rosario Crocetta ha infatti offerto ad Ingroia il posto di direttore dell’Equitalia siciliana. Crocetta non ha dei buoni motivi, se non di immagine, per mettere a capo della “Riscossione spa” un magistrato antimafia, ma questo è, dopo Zichichi e Battiato, un peccato veniale e al tempo stesso una conferma che l’idea forte della sua Sicilia e della sua politica rimane l’isola dei famosi. Si capisce invece che Ingroia, in un momento molto difficile per la sua carriera, possa accettare un incarico che se non è minore è certamente lontano dalla funzione giudiziaria. Ingroia non vuole lasciare Palermo e gli sembra di poter continuare la sua battaglia contro la mafia attraverso il diritto tributario. Ma vuole fare il superesattore delle tasse senza lasciare né la magistratura né la leadership del movimento politico che ha fondato e nel quale ancora crede.
È evidente che la confusione dei tre ruoli ne danneggia due e ne rafforza uno. E vediamo perché. La magistratura viene danneggiata perché è equiparata ad un’esattoria. Non si giustificano più quegli studi né quel concorso, né i disagi e le mille rinunzie di un procuratore antimafia, e nemmeno si giustificano le sue competenze specifiche che non sono quelle della Guardia di Finanza soprattutto in una sede come Palermo. Ma ne esce danneggiata anche la funzione dell’esattore che comporta a sua volta un sapere specializzato che qui viene avvilito. I lavori difficili e complicati, anche quando hanno punti di contatto, non sono intercambiabili. Le verifiche fiscali, il controllo dei libri e delle strutture contabili esigono una competenza tecnica di ragioneria che il magistrato in genere non ha. Inoltre il funzionario di Equitalia non può essere un pubblico ministero che agisce al coperto, neppure in Sicilia, a meno di non credere al preconcetto, che non è diffuso neppure in Val d’Aosta, che i siciliani sono tutti mafiosi che non pagano le tasse. Il cittadino contribuente non dovrebbe avere l’impressione di essere inquisito e vessato. Alla fine il solo ruolo che potrebbe uscire rafforzato è dunque quello di leader di “Rivoluzione civile” che continuerebbe ad esercitare la sua legittima ricerca di consenso ma da una posizione di potere, molto mediatica, molto politica.
Dunque Ingroia ha chiesto al Csm il “fuori ruolo”, che è sospensione dello stipendio ma non della carriera, per occupare quel posto di esattore che in passato – ha detto – era stato svolto da «mafiosi o da corrotti dalla mafia» e che lui però da procuratore non aveva mai inquisito. Oggi, al di là della forte simbologia che porterebbe Ingroia, l’esattoria siciliana, sia nella fase dell’accertamento sia nel momento esecutivo, ha bisogno non dico di ragionieri per bene ma, più propriamente, di probi commercialisti, finanzieri pazienti, tecnici specializzati, efficienti e specchiati ufficiali giudiziari. Ebbene, applicando il regolamento e forse anche il buon senso, il Csm ha bocciato la richiesta di Ingroia e lo ha assegnato alla procura di Aosta. E Ingroia ora si mostra offeso, lascia intendere di avere subito un vendetta, una ritorsione «politica», «disprezzano il mio lavoro», la decisione è «punitiva, ma per ora non lascio la toga… perché significherebbe che chi ha indagato sulle collusioni tra Stato e mafia non può restare in magistratura ». Ma, per la verità, è avvenuto esattamente il contrario: Ingroia, semmai, a un certo punto della sua carriera ha usato le indagini antimafia per uscire dalla magistratura e non per restarci.
Fa dunque rabbia questo strepito capriccioso in chi, al contrario di quel che dice, quando faceva il magistrato è stato ammirato, incoraggiato, sostenuto e fortificato nelle indagini e nelle polemiche. Chissà che opinione si stanno facendo i poliziotti che Ingroia ha avuto al fianco, gli altri magistrati (non solo di Aosta), gli studenti di Giurisprudenza cresciuti nel mito di Falcone e Borsellino, gli uditori, i ragazzi delle scorte che con lui hanno affrontato gli sguardi torvi e beffardi dei nemici veri, non degli avversari politici di oggi ma dei cani con le pistole di ieri. Cosa è successo all’uomo che i mafiosi ha combattuto davvero? Fa rabbia che in Italia non ci si possa permettere il lusso di una bella biografia che non finisca in canovaccio grottesco.
LA RISPOSTA DI INGROIA, SEMPRE SU REPUBBLICA, IL 13 APRILE
di Antonio Ingroia
Caro direttore, se avessi voglia di scherzare, potrei
dire che da giudice clemente, di fronte al pezzo di
Francesco Merlo, forse rileverei il difetto di dolo.Ma,
avendo fatto il pm per venticinque anni, non posso
dimenticare il principio“ignorantia legis non excusat” e
che a un giornalista non si può scusare neppure
l'ignoranza dei fatti e delle persone. Però, di fronte ad
un articolo così c'è poco da scherzare, e quindi trala-
scio il tono di dileggio che credo di non meritarmi e mi
limito a ristabilire la verità dei fatti.
Merlo mi definisce «perdente» e parla di «triste pa-
rabola di autodistruzione». Se si riferisce all'esito elet-
torale, la sconfitta è innegabile, anche se non si può
ignorare che è stata frutto anche delle difficili, quasi
proibitive, condizioni esterne in cui è maturata, al-
leanze mancate comprese, e della peggior legge elet-
torale immaginabile che ha portato in Parlamento
drappelli di eletti in liste che hanno riportato centi-
naia di migliaia di voti in meno di Rivoluzione civile.
Se si riferisce ad altro, vorrei ricordargli che tutti i pro-
cessi e le indagini di cui mi sono occupato hanno avu-
to importanti conferme processuali. Dalla condanna
definitiva di Contrada, alle varie condanne di Dell'U-
tri fino al recente rinvio a giudizio di tutti gli imputati
del processo della “trattativa Stato-mafia”. Quindi,
non so di quale parabola parli. La mia ormai unga car-
riera di magistrato antimafia, con tutti gli annessi e
connessi (vita blindata ventennale, esposizione per-
manente, attacchi delegittimanti, etc.) forse merite-
rebbe maggiore rispetto, ed è amaro che debba esse-
re io a rammentarlo.
Quanto al trasferimento ad Aosta, nessuna iattan-
za, ma il richiamo a principi di buona amministrazio-
ne e di ragionevolezza istituzionale nell'uso delle ri-
sorse umane a disposizione. Ho il massimo rispetto
del lavoro e della professionalità dei colleghi di Aosta,
ma la prima decisione del Csm era di mandarmi come
giudice in soprannumero e per questo ho parlato iro-
nicamente di “scaldare la sedia”. Oggi il Csm cambia
idea e, facendo un'eccezione alla regola, dice che pos-
so fare il pm, ma solo ad Aosta. Sicché ho replicato che,
fatta un'eccezione, forse si poteva fare anche quella di
mandarmi in una procura distrettuale antimafia o al-
la procura nazionale antimafia.
Ho anche prospettato l'alternativa, offertami dal
presidente Crocetta, di mettere a frutto la mia espe-
rienza per mettere ordine in un ente in passato nelle
mani della “mafia in guanti gialli” ed oggi sospettato
di opacità e gestioni illecite, al punto da avere indotto
il presidente della Regione a presentare denuncia alla
procura di Palermo. Credevo (e credo) fosse un inca-
rico più in linea con la mia esperienza professionale.
Ulteriore rettifica. Non ho mai lasciato un'indagine
incompiuta, neppure l'indagine sulla “trattativa Sta-
to-mafia”. Proprio per portarla sino in fondo ho ac-
cettato la proposta di incarico dell'Onu in Guatemala
solo dopo l'estate 2012, quindi non prima di aver fir-
mato l'atto conclusivo dell'indagine, la richiesta di
rinvio a giudizio poi integralmente accolta dal gup per
vviare un processo che sarà seguito dal validissimo
pool di magistrati che ho coordinato fino a qualche
mese fa.
Che l'incarico in Guatemala sia stato breve me ne
dolgo, ma non ha impressionato per nulla l'organi-
smo delle Nazioni Unite dove il rapido avvicenda-
mento dei funzionari è la regola, tanto che il mio pre-
decessore argentino vi era rimasto solo un paio di me-
si in più di me.
Quanto alla politica, è ovvio che un mio rientro in
magistratura non potrebbe non determinare un mio
allontanamento, ma il movimento da me fondato
continuerà ad andare avanti sulle sue gambe che nel
frattempo si sta dando con un radicamento territoria-
le ed un suo coordinamento nazionale.
Infine, una domanda. A che devo tanta malevolen-
za? Perché accusarmi di avere “usato” le mie indagini
per chissà cosa, quando i negativi risultati elettorali
evidenziano semmai che non incarno il modello di
quei tanti “calcolatori di carriera” che affollano il Pae-
se, magistratura compresa? Ho sbagliato in alcune
mie scelte, come tutti non sono infallibile. Ma l'ho fat-
to in buona fede, nella convinzione che servisse una
politica non più nemica della verità e della giustizia,
ma alleata della magistratura nel contrasto alle mafie
e al malaffare, e nella ricerca delle troppe verità nega-
te della nostra storia. Avendo commesso errori il dirit-
to di critica è legittimo, mentre il rispetto delle perso-
ne e delle loro storie è doveroso e la crocifissione do-
vrebbe essere evitata.
LA CONTROREPLICA DI MERLO, SEMPRE IL 13 APRILE
Caro Ingroia, ricostruisca i fatti come le pare, ma evi-
ti di aggiustare le mie parole per la sua comodità pole-
mica. Nel mio articolo non c’erano né il dileggio né la
malevolenza né il mancato riconoscimento della sua
biografia antimafia. C’era invece l’esplicito e dolente
rammarico che una storia come la sua sia finita nel ca-
novaccio grottesco della politica politicante. Anche
questa lettera, con le precisazioni da tribuna politica,
suona triste alle mie orecchie. Infine: io rispetto la sua
buona fede, lei impari a rispettare la mia. (f.m.)
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