domenica 31 marzo 2013

Ravelli e la Milano di Jannacci

Repubblica ha sempre avuto, dai tempi di Guido Vergani, un grande cantore della milanesità. Questo straordinario ricordo di Jannacci fa di Fabrizio Ravelli un suo degnissimo erede.

di Fabrizio Ravelli
su Repubblica del 31 marzo 2013

Volendo rimare nostalgia con topografia, ci si può anche mettere a disegnare una mappa della Milano di Enzo Jannacci, e d'altra parte a lui piaceva disegnare con la matita della nostalgia. Di una Milano vissuta, anche. Enzo bambino abitava in via Sismondi angolo piazza Adigrat, zona viale Argonne. Beppe Viola, quattro anni più di lui, in piazza Adigrat: stesso cortile, stessa banda, stessa origine. Figli dell'Aeronautica. Jannacci di un pilota che aveva fatto la Resistenza, e che lo portò – lui ragazzino di nemmeno dieci anni – in piazzale Loreto a vedere che fine aveva fatto Mussolini. Beppe figlio di un marconista. E quando Enzo cantava “El mé indirizz”, quella casa vecchia “tripli servizi sì, ma in mezz al praa” era la nostalgia di una povertà non vissuta ma frequentata, il mondo degli ultimi che aveva scelto come suo.
E però l'Ortica, quella del famoso palo che “vederci non vedeva un'autobotte”, la canzone scritta con Walter Valdi, non era lontana da casa Jannacci, dieci minuti a piedi giù per viale Argonne. La banda di ragazzini che magari tornavano a casa e la mamma puliva il naso sporco di sangue, “era una cosa di prenderle ma anche di darle via”. Lui, Enzo, prima il liceo e il Conservatorio, e poi la musica prima della laurea in Medicina. Dal surreale del “Cane con i capelli” (vendettero il 45 giri con pupazzo annesso), all'epica di una Milano povera del dopoguerra, in fondo il passo non era così lungo. Periferia, sempre, com'era allora via Sismondi. Quella da dove per andare in piazza del Duomo “ghe voeur mezz'ora e ghe voeren du tram”, e pareva un viaggio lungo.
Piazza del Duomo, il centro raccontato alla moglie: “Ti te sé no: gh'è tant automobil de tucc i color, de tucc i grandéss, l'è pien de lus ch'el par de véss a Natal, e sora el ciel pien de bigliétt de mila”. “Ti te sé no”, il mondo dei ricchi immaginato da un povero, “che bell che gh'a de véss, véss sciori con la radio noeuva, e nell'armadio la torta per i fioeu”. La topografia della povertà milanese immaginata e scelta da Jannacci muove sempre dalla periferia, una periferia simbolica ma precisa. Prendete Rogoredo: oggi ci sono i grattacieli, allora da lì veniva quella scappata con i suoi “des chili” (diecimila lire) che lui (“pronti!”) le aveva dato per un krapfen, e non aveva moneta. Lui andava a Rogoredo, “cercava i so danée”, girava per Rogoredo “vosava me on strascée”: nonnonnonnò non mi lasciare, mai. E quando pensava al suicidio, causa pena d'amore e danno economico”, era là “dove el Navili l'è pussé negher, dove i barconi poden no arrivà”. Poi ci ripensa, quando “l'era bel fermòtt de gemò on quart'ora”.
I Navigli, l'Idroscalo del barbon con le scarpe da tennis che andava a farci il bagno. C'è una canzone – più un monologo – che si chiama “Parlare col liquido” inteso come acqua: “A me piace parlare con la roba, è uno dei motivi per cui la gente mi considera strano. Mi va bene anche se si tratta di roba liquida. Se devo parlare con della roba liquida, preferisco l'Idroscalo. Anche perché non disturba. Il mare, per via del cìf ciàf tipo risacca, non lascia le pause, vuol parlare sempre lui”. La canzone è ambientata all'Idroscalo, dove Jannacci in compagnia si ferma “per motivi urologici” anche se non gli scappava, “ma mi han convinto con la storia della spia...”. La 600 “ci guardava coi suoi occhi piccoli”. E il Naviglio? “Il Naviglio è roba liquida anche lui, ma meno importante dell'Idroscalo”.
Periferia è la fabbrica. Quella, non meglio identificata, di Vincenzina che ci stava davanti. Quella di Gigi Laméra “che abitava dietro a Baggio”, e alla catena di montaggio si innamora di una “tutta bionda con un fresco cappellin”. Lui che veniva in bicicletta, lei che “non è fine, la credevo un gran signor”. Quindi Gigi prendeva il treno per non essere da meno, “ostentava una cravatta dell'Upìm”, e finiva licenziato perché ritagliava fiori nelle lamiere. Periferia e piazza del Duomo. “La forza dell'amore” come una Milano vista dall'alto. Porta Romana, Porta Vittoria, piazza Napoli, piazza Susa, piazza Martini, e dappertutto “ier sira pioveva”. Il Duomo: “t'ho cognossu sul técc del Domm, in controluce te parevet un omm...”. “Il Duomo di Milano” è anche una sua canzone, e parla di un funerale.
Il centro anche, magari quello del magnaccia di piazza Beccaria, di “T'ho comprà i calzett de seda” con la riga nera, “te scaréghi tutt i ser i piazza Beccaria, ti te mostret de sottbanc la tua mercanzia”. Sant'Ambrogio del giudizio di Dio per Prete Liprando (“Che piedi lunghi!”). O via Canonica, che veniva bene con la rima di Veronica, quella con cui “non c'era il rischio del platonico”:”Sei stata il primo amor di tutta via Canonica. Davi il tuo amor per una cifra modica. Al Carcano, in pé”. È curioso che il Carcano, cine-teatro, sia un'aggiunta posteriore: la prima versione diceva “al cinema, in pé”.
La topografia reale della Milano di Jannacci era invece, dopo via Sismondi dove aveva tenuto il suo ambulatorio da medico di base, curatore di poveri anche gratis, la casa di via Mameli dopo il matrimonio con Giuliana, in affitto e il proprietario era Nicola Arigliano. La palestra del karate di via Pasteur: “Per giocare a karaté è indispensabile conoscere le seguenti cose: sentirsi italiani, però dendro, conoscere l'indirizzo segreto di Martin Bormann....”. La pizzeria Rosy e Gabriele a Porta Venezia, quella Strambio 6 a Città Studi, Giggi Fazi (finché è durato) dove una sera mise la faccia nella pastasciutta, per l'entusiasmo. Una Milano da girare con la Vespa scassata. E se era troppo tardi, buttarsi in una pozzanghera per raccontare alla moglie di aver avuto un incidente.

sabato 30 marzo 2013

Gramsci raccontava 92 anni fa cosa rischia di succedere nell'Italia di oggi

Antonio Gramsci su "Ordine Nuovo" aveva spiegato in meno di ottanta parole le ragioni del successo del fascismo. Era il 21 aprile 1921. Cambiate soggetto e fatevi questa domanda: la storia insegna qualcosa? Ecco cosa scrisse il grande sardo:

"Il fascismo si è presentato come l'antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano".

venerdì 29 marzo 2013

Redattori online agli antipodi per fare la copertura h24 del notiziario

Posto che non sia un pesce d'Aprile dell'Ansa, la notizia è interessante. Eccola:

PARIGI, 29 MAR - E' un sistema che potrebbe segnare la fine delle lunghe veglie notturne nelle redazioni: per garantire la diffusione dell'informazione 24 ore su 24, la redazione del Monde.fr, la versione on-line del quotidiano francese Le Monde, ha deciso di inviare a rotazione, ogni sei mesi, due dei suoi 75 giornalisti dall'altra parte del mondo, nella loro destinazione dei sogni, a patto che questa risponda a due criteri: un importante fuso orario rispetto a Parigi e l'accesso a Internet. ''Con il grande sviluppo degli smartphone e del traffico notturno su Lemonde.fr, ci siamo detti che valeva la pena avere una gestione editoriale continua'', spiega Alexis Delcambre, caporedattore al Monde.fr, aggiungendo: ''Avremmo potuto creare un servizio notturno a Parigi, ma abbiamo pensato che forse era meglio passare alla modalita' 24/24 senza che questo diventasse un carico 'negativo' per la redazione''. Detto, fatto. Due giornalisti si sono gia' imbarcati per il primo semestre 2013, uno a Seul, l'altro a Sydney.

Fin qui la notizia. Pensate che 13 anni fa CnnItalia faceva lo stesso tra Roma e Atlanta!

martedì 26 marzo 2013

AgCom rifarà il bando per le rassegne stampa, aperto solo a chi paga i diritti

Da ItaliaOggi del 26 marzo 2013


Il bando per la fornitura del-
la rassegna stampa all’Au-
torità per le garanzie nelle
comunicazioni è da rifare.
Lo ha deciso la stessa Agcom,
annullando la delibera 615
dello scorso novembre perché il
vincitore sarebbe anche potuto
essere un soggetto che non ha i
diritti per la riproduzione degli
articoli di giornale o degli altri
contenuti da utilizzare per la
rassegna. Il fornitore dell’Au-
torità per le comunicazioni, in-
somma, sarebbe potuto essere
tranquillamente uno che viola
la legge sul diritto d’autore, un
paradosso.
Un passo indietro, quindi,
a bando scaduto, ma possibile
perché le procedure di asse-
gnazione non erano ancora co-
minciate. Nella nuova delibera
(135/13/CONS anche su www
italiaoggi.it), l’Autorità guidata
da Angelo Marcello Cardani
spiega in dettaglio che secondo
la legge sul diritto d’autore è
l’editore che può utilizzare eco-
nomicamente l’opera collettiva,
che gli articoli non sono ripro-
ducibili quando è esplicita la ri-
produzione riservata, e infine,

che non vi può essere «forma
di concorrenza all’utilizzazione
economica dell’opera da parte
dell’autore o del titolare del di-
ritto» da parte di terzi.
Il bando metteva sul piat-
to 90 mila euro per due anni
di rassegna, rinnovabile di 1
anno per altri 45 mila euro.
Ora, il servizio affari generali
e contratti dell’Agcom dovrà
«riformulare gli atti di gara»,
inserendo il requisito per i
partecipanti.
L’Agcom si è avveduta in
realtà dopo l’intervento della
Fieg, la Federazione degli edi-
tori, che ha sottolineato per lo
meno l’incongruenza del ban-
do, nonostante l’Autorità non
sarebbe stata responsabile del
fornitore. E per la Fieg il testo
della nuova delibera sarà un
ulteriore strumento da utiliz-
zare per sensibilizzare gli uti-
lizzatori delle rassegne (p.a. in
primis) ad affidarsi a chi rico-
nosce i diritti agli editori, con
contratti individuali o affidan-
dosi a consorzi come il Reper-
torio Promopress che riunisce
circa 300 editori. Già la pro-
vincia di Bolzano ha bloccato
il suo bando dopo il dietrofront
dell'AgCom.

venerdì 22 marzo 2013

La democrazia secondo M5S: Gli altri votino per noi, noi non li votiamo di certo


Sull'Unitá di venerdì 22 marzo 2013

di CLAUDIAFUSANI
twitter@claudiafusani

Con un occhio e mezzo alle consultazio-
ni al Quirinale, i trenta incarichi che
completano la macchina parlamentare
vengono assegnati con criteri che ten-
gono aperte tutte le porte al governo
che Bersani vorrebbe far nascere. Inca-
richi votati per dire a M5S e Scelta Civi-
ca che lavorare insieme si può. I Cin-
questelle hanno avuto «il questore=
controllore» al Senato mentre quello
dellaCamera, più ambito da M5S, è an-
dato all’ex magistrato antiterrorismo
Stefano Dambruoso eletto nella lista
Monti. I grillini hanno avuto anche uno
dei quattro scranni di vicepresidente
della Camera assegnato al giovanissi-
mo Luigi Di Maio, 26 anni, ancora a
metà strada per raggiungere una lau-
rea in Giurisprudenza ma attivissimo
da anni nel Meet up diNapoli.

«Noi non chiediamo nulla, sono posti che ci spet-
tano di diritto con il 25 per cento dei
voti» hanno ripetuto in questi giorni
per concludere nel solito autismo politi-
co: «Noi votiamo solo i nostri».Con infi-
nita pazienza in serata Pier Luigi Bersa-
ni rivendica il voto del Pd per i candida-
ti M5s alla vicepresidenza della Came-
ra e per il questore del Senato. «Ho sen-
tito cose curiose, che noi dobbiamo vo-
tare i loro per rispetto degli elettori,
ma loro non votano i nostri. Noi oggi
abbiamo mostrato rispetto per i loro
elettori, loro non hanno rispettato i no-
stri». Così, se Ettore Rosato (Pd) dice
di «aver votato per un grillino alla vice-
presidenza della Camera e un montia-
no come questore per garantire il plu-
ralismo», i senatori Cinquestelle osser-
vano che «il posto di questore gli spetta
di diritto perché hanno avuto il 25%dei
voti».

Non funziona così e qualcuno
glielo deve spiegare. Funziona che in
Parlamento e in democrazia i voti si
cercano. Ogni volta.

Trenta incarichi, quattro vicepresi-
denti, tre questori e otto segretari d’au-
la per ogni ramo del Parlamento. Fun-
zioni diverse ma tutte decisive per il
funzionamento della macchina. Lo spo-
glio è finito tardissimo. A Montecitorio
diventano vice Marina Sereni e Rober-
to Giachetti per il Pd, Luigi Di Maio
per M5S e Maurizio Lupi per il Pdl. I
nuovi questori sono Paolo Fontanelli
(Pd), Stefano Dambruoso (Sc).

A palazzo Madama diventano que-
stori la carrarina Laura Bottici, 41 anni
(120 voti), Lucio Malan indicato da Pdl
e Lega (113) e l’Udc Antonio De Poli, il
più votato con 144 voti. A Pd-Pdl-Lega
e Scelta civica le quattro vicepresiden-
ze. Tutta la complessa scacchiera delle
nomine tiene conto, anche, delle varie
anime del partito democratico.
Contro la lunghezza della procedu-
ra il senatore Cinquestelle Lorenzo Bat-
tista ha lanciato un’idea via twitter:
«Ma se facessimo sulla Intranet le votazioni
per l’ufficio di presidenza, quanto tempo
risparmieremmo?». Buona per la prossima volta.
Il senso delle nomine di ieri va cer-
cato soprattutto nei tentativi di dialo-
go istituzionale con il popolo dei Cin-
questelle. Dove dialogo non significa
sottostare a logiche spartitorie di pol-
trone ma capacità di convivere pur
con posizioni diverse cercando una sin-
tesi.

Qualcosa, a dir la verità, sembra
stia cambiando tra i neoeletti grillini.
Il giovane Di Maio, ad esempio. Giac-
ca blu e camicia e righe, taglio di capel-
li perfetto (anche la toilette vuole la
sua parte) già durante lo spoglio scam-
bia due parole con i giornalisti in Tran-
stlantico con un piglio da parlamenta-
re navigato. «Se sarò eletto - dice - sa-
prò essere responsabile e vicepresi-
dente di tutti. Noi M5S non siamo arri-
vati per stravolgere le cariche istituzio-
nali, altrimenti non saremmo qui nel-
le istituzioni». Non vede l’ora, aggiun-
ge, di «collaborare con i funzionari del-
la Camera, che sono i più bravi dello
Stato» ed è pronto a farlo «nel miglior
modo possibile». Così come non vede
l’ora di «parafrasare il discorso del pre-
sidente Boldrini e attuare con lei i pro-
positi di trasparenza e solidarietà di
cui ha parlato».Quasi non si crede alle
proprie orecchie. Compreso il com-
mento sul presidente Napolitano: «Ha
un grandissimo compito».

Un po’ di amaro resta per il posto di
questore della Camera. Laura Castel-
li, giovane emiliana ma a suo agio nei
bilanci come un topo nel formaggio.
«Chiediamoci come mai questa figura
non viene data al Movimento 5 Stelle e
perchéDini e Pisanu vedono con terro-
re la nostra presenza nelle commissio-
ni sui Servizi segreti e sulla Vigilanza
Rai, Ilmandato che ci hanno dato i cit-
tadini è di andare a controllare cosa
succede nei posti che contano». Se ca-
stelli non potrà spulciare nel miliardo
e 300 milioni di spese correnti della
Camera, Laura Bottici lo potrà fare da
oggi nei duemiliardi di spese del Sena-
to.

giovedì 21 marzo 2013

M5S, quando la comunicazione diventa un'arma a doppio taglio

da l'Unità del 21 marzo 2013

di CLAUDIA FUSANI


Questa storia della comunicazio-
ne sta diventando un proble-
ma serio per il pianeta Cinque
stelle. I neonominati capi della comuni-
cazione grillina sono in silenzio stam-
pa dopo appena 24 ore di incarico con
motivazioni, almeno dal punto di vista
lessicale, abbastanza violente che defi-
niscono i giornalisti variamente come
«spalamerda» o «pseudo-omuncoli che
sputtanano tutta la categoria». Claudio
Messora e Daniele Martinelli, i blogger
preferiti da Casaleggio ma ignoti alla
maggior parte dei cittadini-portavo-
ce-parlamentari M5S, mostrano un
pronunciato nervosismo di «ruolo», vit-
time forse di quel «delirio di onnipoten-
za» indicato come il diavolo e satana
nei conciliaboli grillini, il pericolo più
grave della nuova dimensione politica
romana. Vittime, anche, forse, di qual-
che guaio giudiziario che sta assumen-
do le tonalità del giallo.

Nel sito La Voce d’Italia
si racconta di un’indagine avvia-
ta dalla procura di Monza in cui Clau-
dio Messora, noto nel web come Byo-
blu, sarebbe indagato per «ricettazio-
ne, violazione, sottrazione, e rivelazio-
ne del contenuto di corrispondenza». Il
blogger, continuano le rivelazioni di
La Voce d’Italia, «sarebbe indagato insie-
me a un altro giornalista nell’ambito di
un procedimento penale nei confronti
di hacker legati al Movimento 5 stelle.
Sarebbe anche imminente l’apertura
di un fascicolo a carico di una cinquan-
tina di attivisti grillini perminacce (an-
che di morte): il braccio violento del
movimento, che nè Messora, nè Marti-
nelli racconteranno mai».

La procuradi Monza però non conferma
alcuna in-dagine di questo tipo. L’interessato,
Messora, parla di «cazzoni ad orologe-
ria» in riferimento ai personaggi coin-
volti nella divulgazione. E alla fine sot-
to ci sarebbe “solo” una guerra tra blog-
ger.

Ma insomma, indagini a parte e
scongiurando scenari circa «un brac-
cio armato grillino che simuove rigoro-
samente sulweb», tutto questo non pia-
ce né poco né punto ai deputati e sena-
tori Cinquestelle. A cui l’idea di avere
sulla testa «commissari capi della co-
municazione» con la funzione di «otti-
mizzare per evitare fraintendimenti»
non piace affatto. «Perchè non è previ-
sta nel contratto che abbiamo firmato,
perchè la parola ottimizzare non ci pia-
ce visto che non siamo una catena di
montaggio e perchè abbiamo già i no-
stri portavoce» dice nel pomeriggio in
zona buvette a Montecitorio un onore-
vole grillino che stranamente parla ma
chiede di essere «virgolettato come fon-
te vicina al Movimento».

La cronaca della giornata racconta
bene di come stanno cambiando umori
e posizioni. Si comincia a fine mattina-
ta con Messora e Martinelli che attacca-
no a testa bassa giornalisti e stampa:
«Basta, non parliamo più». Scrivono
due post separati sui profili Facebook
ma analoghi nella sostanza. «La mac-
china del fango è entrata subito in azio-
ne - lamenta Messora - In mancanza di
una ben precisa notizia di crimine da
addebitare, sono passati alla diffama-
zione creativa: usano titoli che poi gli
stessi articoli richiamati smentisco-
no». Messora si rivolge ai «giornalisti
onesti», invitandoli ad «iniziare una
guerra di liberazione da questi pseu-
do-omuncoli che sputtanano tutta la
categoria. Se il Movimento Cinque
Stelle non parla con nessuno (e d'ora
in poi neppure io) è solo colpa loro».

Sfugge a Messora che invece nel frat-
tempo, imparando a conoscersi, i Cin-
questelle iniziano a fidarsi e a confron-
tarsi con qualche cronista. Dalla sua
pagina Fb fa eco Martinelli che in po-
che ore offende tutta la categoria pre-
ziosissima dei portavoce «perchè sia
chiaro che io non sono il Capezzone di
turno». Solidarietà, ovviamente, a Da-
niele Capezzone, ora deputato Pdl e
per cinque anni mandato in tv a soste-
nere la linea del giorno. Scrive Marti-
nelli: «Sono stato nominato consulen-
te di un gruppo parlamentare e vengo
trattato da giornali e tv come un addet-
to stampa che fa da megafono al Movi-
mento. Questi non hanno ancora capi-
to che saranno i deputati del Movimen-
to a parlare della loro attività politica.
Il mio compito è solo quello di ottimiz-
zare la loro comunicazione. La mia co-
municazione è personale. Non è quel-
la del Movimento. Siccome le tivù e i
giornali mi stanno spacciando come il
Capezzone della situazione, non parle-
rò più con nessuno, tranne che coi de-
putati della Camera».

Non è chiaro cosa resterà dei due Re-
sponsabili comunicazione protagonisti
di tanto caos senza neppure aver mes-
so piede nè alla Camera nè in Senato.
La definizione giusta è spin doctor? Pic-
coli guru crescono all’ombra di Gianro-
berto Casaleggio che li ha ingaggiati
personalmente. Di certo i neo eletti
non vogliono nè badanti nè commissa-
ri. E sfidando le disposizioni dall’alto,
l’onorevole-cittadino Roberto Fico
chiarisce: «Abbiamo già i nostri porta-
voce, sono Roberta Lombardi e Vito
Crimi. Loro sono professionisti della
comunicazione che hanno il compito
di aiutarci a veicolare i messaggi all'
esterno».
Il resto non serve.

martedì 19 marzo 2013

Ecco come Travaglio vuole diventare la mosca cocchiera di M5S

di MARCO TRAVAGLIO
dal Fatto di lunedì 18 marzo 2013

Gli innegabili aspetti positi-
vi dell'elezione di Laura
Boldrini e di Piero Grasso a pre-
sidenti di Camera e Senato li ha
elencati ieri il nostro direttore
Antonio Padellaro. Ma il coro
di Exultet, con sottofondo di
trombe e tromboni, che ha ac-
compagnato la doppia votazio-
ne di sabato rischia di occultar-
ne le ombre, che pure ci sono e
vanno segnalate. A costo di pas-
sare per bastiancontrari.

1) È comprensibile che alcuni se-
natori di 5Stelle, pare di prove-
nienza siciliana, non se la siano
sentita di contribuire, astenendo-
si, al ritorno di Schifani (tuttoggi
indagato per mafia a Palermo, sia
pure con una richiesta di archivia-
zione dei pmpendente dinanzi al
gip) alla presidenza del Senato. E
abbiano dunque votato per Piero
Grasso, evitando il peggio per la
seconda carica dello Stato. Ma il
metodo seguito non è stato dei più
trasparenti: siccome tutti i candi-
dati M5S si erano impegnati con
gli elettori ad attenersi alle deci-
sioni democraticamente assunte a
maggioranza dai gruppi parla-
mentari, chi s'è dissociato dall'a-
stensione decisa dal gruppo del
Senato avrebbe dovuto dichiarar-
lo e motivarlo apertamente, anzi-
ché rifugiarsi nel voto segreto. E
precisare che lo strappo alla regola
vale soltanto questa volta, in via
eccezionale, trattandosi delle pre-
sidenze dei due rami del Parla-
mento, e non si ripeterà più.

2) Grillo, non essendo presente
in Parlamento, deve rassegnarsi:
i parlamentari di M5S saranno
continuamente chiamati a vota-
re sul tamburo, spesso con pochi
secondi per riflettere, quasi sem-
pre col ricatto incombente di do-
ver scegliere il “meno peggio”
per sfuggire all'accusa del “tanto
peggio tantomeglio”, e neppure
se volessero potranno consi-
gliarsi continuamente con lui
(che sta a Genova) e col guru Ca-
saleggio (che sta a Milano). È la
normale dialettica democratica,
che però nasconde un grave pe-
ricolo per un movimento fragile
e inesperto come 5 Stelle: la con-
tinua disunione dei gruppi par-
lamentari che, se non si atterran-
no alle regole che si sono dati, si
condanneranno all'irrilevanza,
vanificando lo strepitoso succes-
so elettorale appena ottenuto. La
regola non può essere che quella
di decidere a maggioranza nei
gruppi e poi di attenersi, tutti,
scrupolosamente a quel che si è
deciso. Anche quando il voto è
segreto. Le eventuali eccezioni e
deroghe vanno stabilite in anti-
cipo, e solo per le questioni che
interrogano le sfere più profon-
de della coscienza umana. Nelle
prossime settimane il ricatto del
“meno peggio” si ripeterà per la
presidenza della Repubblica, per
la fiducia al governo, per i pre-
sidenti delle commissioni di ga-
ranzia. Ogni qualvolta si fron-
teggerà un candidato berlusco-
niano e uno del centro o del cen-
trosinistra, ci sarà sempre qual-
cuno che salta su a dire: piuttosto
che Berlusconi, meglio D'Ale-
ma; piuttosto che Gianni Letta,
meglio Enrico; piuttosto che
Cicchitto, meglio Casini. Se cia-
scuno votasse come gli gira, sa-
rebbe la morte del Movimento,
che si ridurrebbe a ruota di scor-
ta dei vecchi partiti, tradendo le
aspettative dei milioni di elettori
che l'hanno votato per spazzarli
via o costringerli a rinnovarsi
dalle fondamenta. ll che potrà
avvenire solo se M5S, pur non
rinunciando a fare politica,
manterrà la sua alterità e sfug-
girà a qualsiasi compromesso al
ribasso, senza lasciarsi influen-
zare dai pressing dei partiti e dai
media di regime.

3) Grasso e la Boldrini hanno storie di-
verse, non assimilabili in un unico,
acritico plauso alla loro provenienza dalla
mitica “società civile”. La Boldrini, per il
suo impegno all'Onu in favore dei migran-
ti, è una figura cristallina e super partes,
mai compromessa con i giochetti della
bottega politica. Grasso invece alle sirene
della politica è stato sempre sensibilissimo,
come dimostra la sua controversa carriera
di magistrato antimafia: da procuratore di
Palermo si sbarazzò dei pm più impegnati
nelle indagini su mafia e politica e sulla
trattativa Stato-mafia e trascurò filoni
d'inchiesta che avrebbero potuto far emer-
gere responsabilità istituzionali con una
decina d'anni di anticipo; poi incassò la
gratitudine del centrodestra, che di fatto lo
nominò procuratore nazionale antimafia
con tre leggi contra personam (incostitu-
zionali) che eliminarono il suo concorren-
te Caselli; infine incassò la gratitudine del
centrosinistra con la cooptazione nelle li-
ste del Pd, dopo aver flirtato col Centro di
Casini ed essersi guadagnato gli applausi
del Pdl proponendo la medaglia al valore
antimafia nientemeno che per Berlusconi.
Solo la faccia del suo avversario Schifani
può nascondere questi e altri altarini.
4) Il centrosinistra ha prevalso d'un soffio
alle ultime elezioni col risultato più mise-
revole mai ottenuto da un vincitore nella
storia della Repubblica: meno di un terzo dei
votanti. Con che faccia Bersani e Vendola,
nonostante le parole di apertura agli altri
no accaparrate entrambe? Un minimo di
decenza, oltrechè di spirito democratico,
avrebbe dovuto indurli a rinunciare all'ar-
roganza e all'ingordigia da poltrone, e a vo-
tare, senza mercanteggiare nulla in cambio,
il candidato di 5 Stelle (o di un'altra coali-
zione) al vertice della Camera o del Senato.
5) A prescindere dai meriti e dai demeriti
individuali, sia la Boldrini sia Grasso sono
parlamentari esclusivamente grazie a quel
Porcellum che i loro rispettivi partiti, Sel e
Pd, contestano a parole e sfruttano nei fatti.
Nessun elettore li ha scelti: sono stati coop-
tati nelle liste del centrosinistra dagli appa-
rati, all'insaputa degli elettori, non avendo
partecipato neppure alle primarie per i can-
didati. L'altroieri Vendola e Bersani li hanno
estratti dal cilindro all'ultimo momento, sen-
z'alcuna consultazione dei rispettivi gruppi,
per dare una verniciata di nuovo alle vecchie
logiche spartitorie che sarebbero subito sal-
tate agli occhi se a incarnarle fossero stati i
Franceschini e le Finocchiaro.Ma la sostan-
za non cambia. La Boldrini poi rappresenta
un partito del 3% e ora presiede la Camera
grazie a un altro meccanismo perverso del
Porcellum: il mostruoso premio di maggio-
ranza del 55% dei seggi assegnato allo schie-
ramento che arriva primo, anche se non rap-
presenta nemmeno un terzo dei votanti.
Grasso è presidente del Senato per conto di
una coalizione minoritaria, con l'aggiunta
decisiva di alcuni franchi tiratori del Centro e
di 5 Stelle.Quanto dimeno nuovo e traspa-
rente si possa immaginare.

domenica 17 marzo 2013

La democrazia parlamentare non è un meet up

Dal Corriere della Sera di domenica 17 marzo 2013

di ANTONIO POLITO

Benvenuti nel mondo
dei franchi tiratori. I
grillini erano entrati in
Parlamento appena l’altro
ieri compatti come una
falange macedone,
monolitici come una
novella Compagnia di
Gesù, giurando
obbedienza perinde ac
cadaver. E al primo voto
vero, alla prima occasione
in cui non hanno potuto
evitare di scegliere, si
sono clamorosamente
divisi. La democrazia
parlamentare non è un
«meet up». È fatta di voti
e di regole. E senza
vincolo di mandato.
Messi di fronte all’alternativa tra Grasso e Schifa-
ni, numerosi senatori grillini hanno dunque rifiuta-
to una sdegnosa equidistanza, e cioè il mantra stes-
so di un movimento che considera i partiti tutti
uguali e tutti da cancellare, per sostituirli con la de-
mocrazia diretta del 100 per cento in cui i cittadini
si autogovernano. Non basta star seduti sugli spalti
alle spalle di tutti gli altri per evitare di sporcarti nel-
l’arena, quando ti chiamano a votare per appello no-
minale. Né viene in aiuto la tattica indicata ai suoi
seguaci da Beppe Grillo, valutare «proposta per pro-
posta» per evitare così di fare scelte «politiche».

Quella di votare Grasso era infatti una «proposta»,
e un buon numero di senatori grillini l’ha accettata,
facendo così una scelta altamente politica.

L’inflessibile logica del sistema parlamentare,
nel quale alla fine di ogni discussione c’è sempre
un ballottaggio in cui devi dire sì o no, non è d’al-
tra parte aggirabile con i riti della democrazia onli-
ne, perché sulla Rete non vale la regola «una testa
un voto» ma votano solo le minoranze attive. Sarà
sempre più difficile, emendamento per emenda-
mento, stare in Parlamento aspettandosi che a deci-
dere sia qualcuno che sta fuori. Ogni giorno si vota
innumerevoli volte, e ogni voto può avere conse-
guenze sulla vita di tutti. Ecco perché l’assemblea
parlamentare è diversa da un consiglio comunale o
da un’assemblea condominiale: perché fa le leggi,
la cosa più politica che ci sia.

D’altra parte i «grillini» non sembrano aver fino-
ra trovato nemmeno un modo accettabile per ga-
rantire quella trasparenza e pubblicità del dibattito
che finché erano fuori del Parlamento sembrava la
più innovativa delle soluzioni. Finora l’unica riu-
nione dei gruppi cui abbiamo assistito in «strea-
ming» è stata quella in cui i neoparlamentari si pre-
sentavano: più un happening che un’assemblea po-
litica. Ieri, quando il gruppo del Senato ha dovuto
decidere, lo ha fatto invece a porte chiuse, con i
giornalisti che origliavano come ai bei tempi della
Dc, e che riferivano di urla e di pugni sul tavolo poi
sfociati in un’aperta contestazione del capogruppo
(altra questione delicata: i leader sono essenziali in
ogni consesso, e i grillini non ne hanno uno in Par-
lamento; senza un leader e una linea, il motto «uno
vale uno» non può che trasformarsi in continua di-
visione).

Ma l’astuta mossa di Bersani, che a Schifani ha
evitato di opporre un nome usurato della vecchia
politica per preferirgli l’ex magistrato antimafia,
non ha solo aperto una crepa tra i «grillini», ha an-
che svelato due punti deboli di quel movimento. Il
primo è il rischio di irrilevanza. Se continua così, il
25 per cento dei voti degli italiani in Parlamento
non conta nulla. Il Movimento 5 Stelle è completa-
mente privo di potere coalizionale. Il partitino di
Vendola, che ha preso poco più del 3 per cento alle
elezioni, ha usato invece al massimo quel potere,
prendendosi la presidenza della Camera.

La seconda debolezza del M5S è che, per quanto
Grillo lo voglia sottrarre alla logica destra-sinistra,
la sua élite parlamentare, come segnalava ieri Mi-
chele Salvati su questo giornale, pende notevol-
mente a sinistra e al momento decisivo lo dimo-
stra, come ieri per impedire la vittoria di Schifani.
Non basterà forse a risolvere il problema di Bersa-
ni, visto che anche con i franchi tiratori «conquista-
ti» ieri gli mancano ancora una ventina di senatori
per un voto di fiducia, oltretutto palese;ma può ba-
stare per logorare rapidamente la presa di Grillo
sui suoi eletti, forse meno manovrabili di come lui
se li immaginava.

martedì 12 marzo 2013

Nei giornali tedeschi piccole squadre di inviati e corrispondenti solo dove davvero servono

Su Italia Oggi del 12 marzo 2013 Roberto Giardina da Berlino spiega perchè i grandi chiudono gli uffici di corrispondenza dove non servono a nulla e li aprono altrove.

di ROBERTO GIARDINA

La figura dell’inviato
speciale non esiste nel
giornalismo tedesco. Si
traduce con «reisende re-
porter», come dire un cronista
itinerante, la definizione meno
altisonante dell’equivalente
italiano, o del francese «grand
envoyé», è una spia del prag-
matismo teutonico. Il reporter
che gira per il mondo quasi
sempre è un redattore del
desk, specialista di una certa
zona: quando accade qualcosa
nei paesi di cui è esperto, par-
te, osserva, informa, poi ritor-
na alla scrivania. Ma giornali
e riviste hanno sempre avuto
corrispondenti stabili nelle
capitali più importanti, anzi,
spesso più d’uno.

La Frankfurter Allgemeine
è un quotidiano molto partico-
lare, probabilmente unico, ap-
partiene a una fondazione ed è
diretto da una squadra di cin-
que direttori. Quando intervi-
stai Joachim Fest, uno di loro,
conosciuto da noi anche per la
sua biografia di Hitler, fu lui
a chiedere a me quanti
corrispondenti aveva il
mio gruppo in Germania:
«Solo io», gli spiegai. «Noi,
nel suo paese, ne abbiamo
tre». Non lo aggiunse, era
gentile, ma lo pensava:
«Eppure la Germania è più
importante dell’Italia».

Ora, per ragioni econo-
miche e a causa di internet,
anche dai noi «reisende re-
porter» e corrispondenti si
stanno per estinguere. La
politica estera non inte-
ressa, basta notare come
nella campagna elettorale
il tema dei nostri impegni
nel mondo non sia stato
neppure sfiorato.

In Germania, dove i gior-
nali cominciano a perdere
copie, non si rinuncia ma si
riorganizza. Die Zeit, il set-
timanale più intellettuale,
non ha ancora problemi di
tiratura, nell’ultimo trime-
stre ha venduto 540 mila
copie, ma non vuole sforare il
bilancio. Il capo della politica
(interna ed estera) Bernd Ul-
rich ha appena annunciato la
chiusura dell’ufficio di Mosca.

Non dovrebbe essere uno dei
più importanti? «Ogni corri-
spondente», spiega, «ci costa
quanto due redattori, e Mosca
sotto Putin è come congelata».
Non serve un osservatore
permanente. La cifra ri-
sparmiata in Russia viene
impiegata altrove: si apre
una nuova sede permanen-
te a Rio de Janeiro. Il Sud
America diventa sempre
più importante sulla scena
mondiale. La Zeit invia il
suo vice della sezione eco-
nomica, Thomas Fischer-
mann, sposato con una
brasiliana. Lanno prossi-
mo, tra l’altro, si giocano in
Brasile i mondiali di calcio
e tra due anni si terranno
le Olimpiadi.

Ci ha pensato anche
lo Zdf, il secondo canale
pubblico. C’era già un cor-
rispondente, ora saranno
due, e la speaker Mariet-
ta Slomka diventerà una
sorta di inviato permanen-
te in tutto il Sud America.
Lo Zdf rafforza anche l’uf-
ficio di Istanbul e quello di
Pechino, ma chiude le sedi
di Atene, Madrid e Caracas. I
corrispondenti sono responsa-
bili per zone e non per paesi:
di Atene si occuperà il collega
che vive a Roma, spartendosi il
Mediterraneo con il corrispon-
dente da Parigi. In tutto, lo Zdf
ha 32 redattori dislocati in 17
paesi, pronti a viaggiare anche
altrove. In gergo li chiamano
«Fallschirmjournalisten», re-
dattori paracadutisti.

Anche la Zeit, che ha in tota-
le dieci redazioni, ha creato una
nuova squadra di tre speciali-
sti, pronti a intervenire come
un commando a seconda degli
eventi. Stessa politica per l’Ard,
il primo canale. Si risparmia
sulle spese, dicono i responsa-
bili, ma non sul personale. Si
viaggia in turistica, o con voli
low cost, non si prenota più
un albergo a quattro stelle. La
squadra estera è formata da 60
corrispondenti che informano
da 30 sedi. E si ristruttura la
dislocazione: a Mosca la reda-
zione passa da quattro a tre,
come a Londra e a Parigi, e si
rafforza invece l’ufficio di Nuo-
va Delhi. La politica estera non
esiste più, hanno capito i tede-
schi, tutto quanto avviene nel
mondo è di interesse nazionale.
Sarà una battuta retorica, ma
non è falsa.

domenica 10 marzo 2013

Mucchetti sull'Unitá fa un'analisi attenta del momento politico alla luce anche dei mercati internazionali


di Massimo Mucchetti


Il declassamento delle obbligazioni
pubbliche italiane, annunciato
venerdì da Fitch, fa squillare un
primo campanello d’allarme che
alimenta le preoccupazioni del
Quirinale. Il giudizio della più
piccola delle grandi agenzie di
rating, infatti, deriva dal fondato
timore che il risultato elettorale
renda impossibile dare all’Italia un
governo stabile.

Se Fitch sarà seguita da Moody’s e
Standard&Poors, qualche conseguen-
za potrà verificarsi nella riallocazione
degli investimenti istituzionali vincola-
ti al rating. Ci sarebbe da chiedersi per
l’ennesima volta quale mercato sia
quello dove gli investitori non decido-
no in prima persona ma si consegnano
a tre agenzie. E tuttavia questa è la
realtà con la quale, ora, il Paese deve
fare i conti.

Quas imai le agenzie intercettano in
anticipo i rischi di insolvenza. Di solito
alzano o abbassano il rating sulla base
delle quotazioni dei titoli e dei credit
default swap. Questa volta, il pessimi-
smo d’agenzia non registra le scelte e
le previsioni reali giàmanifestate dagli
investitori. Ci dobbiamo dunque chie-
dere se Fitch abbia anticipato la storia
di una prossima impennata dei tassi
sui Btp o se il suo responso sia destina-
to a una sostanziale irrilevanza. Ri-
sponderei nel modo che segue.
In questa fase imercati sembrano di
manica larga. Avrebbero già dovuto
massacrare l’Italia alla caduta del go-
vernoMonti e non l’hanno fatto. L’Eu-
ropa è percorsa da movimenti che pro-
testano contro l’austerità. Fioriscono
partiti populisti.

Eppure, nel primoscorcio del 2013, proprio
verso le obbligazioni dei Paesi mediterranei
si sonodiretti ingenti capitali internazionali a
caccia di rendimenti. La politica della
Bce ha scoraggiato la speculazione
contro i debiti sovrani denominati in
euro.
Se ora stiamo alle ultime dichia-
razioni di Mario Draghi, non dovrem-
mo temere Fitch. Il presidente della
Bce non vede problemi ravvicinati per
il debito pubblico italiano in quanto i
conti dello Stato risulterebbero protet-
ti dai provvedimenti fiscali già presi e
destinati ad essere via via attuati. Ma
siamo sicuri che le parole di Draghi
non siano dettate dalla ragion politica
più che dalla ragione analitica? E fin
dove si spingerà la fame di rendimenti
dei money manager della City, di Zuri-
go e d iWall Street? La risposta autenti-
ca verrà dagli stessi mercati, nei prossi-
mi giorni. E avrà un’influenza rilevan-
te sulla formazione del nuovo gover-
no.

Ora, l’esperienza del governo Monti
si è rivelata largamente imperfetta. Ab-
biamo evitato il peggio nell’autunno
del 2011. Abbiamo consentito a Draghi
di dire che l’Italia faceva i compiti a
casa, e dunque che la Bce poteva sten-
dere una cintura di protezione attorno
al suo debito pubblico. Lo spread
Btp-Bund è tornato attorno a quota
300. Ma abbiamo pure un’economia
reale che non ha risolto i problemi di
fondo, un Paese in ginocchio e una de-
mocrazia parlamentare in crisi eviden-
te. E la stessa quota 300 resta insoste-
nibile nel lungo periodo. Basti ricorda-
re che nella primavera del 2011, Deut-
sche Bank si liberò dei titoli di Stato
italiano quando a quota 300 non erava-
mo ancora arrivati e Berlusconi nega-
va ancora l’esistenza del problema. In-
somma, il bilancio politico del primo
governo del Presidente non è univoco,
ancorché non possano essere attribui-
ti al presidente Napolitano gli errori su-
gli esodati, i pasticci sul mercato del
lavoro, il rifiuto della politica industria-
le e, last but non least, il tardivo e falli-
mentare protagonismo partitico di
Monti.

Un anno e mezzo fa l’alternativa a
Monti era quella di andare alle urne,
liquidand oBerlusconi con un Grillo an-
cora in gestazione di sé stesso. Il timo-
re delle mazzate dei mercati indusse il
Quirinale a evitare la rottura traumati-
ca della legislatura. E l’Italia tutta ap-
plaudì attribuendo a Monti simpatie
plebiscitarie.

Ma cosa vuol dire nell’Italia tripola-
re del 2013 fare un governo, mentre
Fitch storce il naso e però lo spread
pare ancora fermo? Il governo al quale
lavora Pierluigi Bersani rappresenta il
compromesso possibile sui contenuti
tra lo schieramento dimaggioranza re-
lativa, sia pure assai risicata, e lo schie-
ramento nuovo. Sarebbero realizzabili
provvedimenti che, fin qui, non hanno
mai riscosso adeguate maggioranze
parlamentari. Se, come pare, il Movi-
mento 5 Stelle lo affosserà, se ne assu-
merà la solenne responsabilità nelle se-
di istituzionali e non solo in comizi ur-
lati senza contraddittorio.

Il Quirinale poi prenderà le ulteriori decisioni.
Certo è che un secondo governo del
Presidente non potrà essere la fotoco-
pia del primo, quello di Mario Monti.
L’emergenza non è più la stessa. E
nemmeno l’offerta politica. L’emer-
genza corrente non è più la finanza
pubblica, ma il funzionamento della
democrazia e l’economia reale.L’offer-
ta politica non può più essere centrata
su un guardiano dei conti al quale i par-
titi uguali a sé stessi affidano il «lavoro
sporco» per poter poi tornare a casset-
ta,ma su un governo e su partiti capaci
di avviare il rinnovamentomancato fin
qui.

E se la fase di avvio comporta un
altro passaggio elettorale con una nuo-
va legge capace di dare comunque un
governo al Paese, i mercati capiranno
che solo l’esercizio della democrazia
può salvare l’Italia (e l’Europa) dall’al-
ternativa tra clown.

Quando su Repubblica trovo un pezzo di Deaglio, io lo leggo, qualsiasi sia l'argomento







Un nuovo senatore del PD annuncia l'auto riduzione dello stipendio. Spero sia un esempio che in molti seguiranno

Prima di sentirlo mercoledì scorso durante la direzione del PD non conoscevo il neo-senatore triestino Francesco Russo, che m'è sembrato subito uno dei "pezzi migliori" del partito, come appare anche da questo suo annuncio di ieri, ripreso da Republlica:

Un neo senatore

“Mi ridurrò
lo stipendio”

ROMA — l neosenatore
del Pd Francesco Rus-
so, segretario provincia-
le di Trieste, ha annun-
ciato l’intenzione di de-
volvere il 20% del pro-
prio stipendio da parla-
mentare a Banca Etica n
favore di progetti di nte-
resse sociale rivolti in
particolare ai giovani
studenti, al microcredit
o alle famiglie in diffi-
coltà per il mutuo sulla
prima casa. Mercoledì
scorso durante la dire-
zione del partito Russo
aveva attaccato Livia
Turco dicendole che pri-
ma vanno sistemati gli
esodati e poi si pensa ai
funzionario del partito.
«Perché Grillo prende
tanti voti?», si chiede ora
il senatore democratico:
«Banale, perché lui e i
suoi sembrano più cre-
dibili nelle cose che pro-
mettono. Anche il Pd in
campagna elettorale
aveva nel programma il
taglio dei privilegi della
politica, degli stipendi e
del numero dei parla-
mentari, ma a noi non
hanno creduto. Per que-
sto motivo, in attesa di
poter votare a Roma il
provvedimento per la ri-
duzione degli stipendi,
ho deciso di dare un se-
gnale forte e di ridurme-
lo da solo. Chiederò an-
che ad altri colleghi, non
solo del mio partito, di
far partire tutti insieme
questa iniziativa con più
forza e risorse».

giovedì 7 marzo 2013

Ecco perché Rodotá potrebbe essere l'uomo che prova a trovare una sintesi tra PD e grillini

Sull'Espresso in edicola dall'8 marzo 2013

di MARCO DAMILANO

Da tempo propone di aggiungere
alla Costituzione un articolo 21-
bis sul diritto all’informazione
on line: «Tutti hanno eguale di-
ritto di accedere alla Rete Inter-
net».

Stefano Rodotà, 80 anni il prossimo 30
maggio, non ha nulla a che fare con i conver-
titi dell’ultima ora al grillismo. Da giurista,
politico (deputato della Sinistra indipenden-
te e poi del Pds dal 1979 al 1994), garante
della Privacy e intellettuale si spende da de-
cenni per studiare come allargare le frontiere
della democrazia. Gira l’Italia per parlare del
suo ultimo libro (“Il diritto di avere diritti”,
pubblicato da Laterza). E accoglie divertito
la mobilitazione che lo candida come presi-
dente del Consiglio ideale di un governo
Pd-5 Stelle o, più seriamente, presidente della
Repubblica dopo Giorgio Napolitano:
«Mantengo un giusto distacco ironico. Cer-
to, gli attestati di stima mi fanno piacere».
Nella sua casa romana riflette sulla lezione
del voto del 24-25 febbraio: il disastro della
Seconda Repubblica, ritardi della sinistra, e
potenzialità e i rischi del Movimento 5 Stelle.
E l’agenda di un possibile «governo di rico-
struzione morale e civile del Paese».

Lei ha scritto che con il voto è crollata la
Seconda Repubblica e che ora siamo sotto
le macerie. Perché è finito quel sistema?

«È una crisi che arriva da lontano.
Quando sono diventato deputato, c’era-
no ancora un senso comune, un ricono-
scimento reciproco che coinvolgeva tutte
le forze, poi ridotto a caricatura con la
condanna del consociativi-
smo che pure c’era. Avevo
stretto amicizia con il capo-
gruppo del Msi Alfredo Paz-
zaglia, inflessibile quando si
trattava di difendere le pre-
rogative del Parlamento.
Poi negli anni Ottanta arri-
va il decisionismo craxiano,
la politica ha l’impressione
di non farcela più e delega
agli ingegneri istituzionali
la cura dei mali».

Quel sistema, però, era profon-
damente in crisi.

«Certo, già nei primi anni Ot-
tanta i deputati della Sinistra indipendente
avevano proposto per la riforma elettorale il
modello tedesco. La razionalizzazione del
sistema era necessaria, la semplicazione
senza nessuna mediazione ha provocato i
mali successivi. Le forzature politiche, sia
chiaro, sono benvenute e a volte necessarie.
Ma chi ha ritenuto che il cambiamento po-
tesse essere affidato alle parole d’ordine del
bipolarismo e della scelta diretta dei gover-
nanti ora condanna il bipolarismo forzoso.
La cosiddetta Seconda Repubblica è stata un
disastro. E il Paese in questi vent’anni si è
spaccato più profondamente di prima, quan-
do c’era la guerra fredda. Tra laici e cattolici:
sulla legge 40 sulla procreazione ci sono
stati scontri ideologici più duri di quelli sulla
legge 194 sull’aborto quando c’era la Dc. O
sugli extracomunitari: quando da giovane da
Cosenza andavo a Torino leggevo i cartelli,
“qui non si aftta ai meridionali”, ma nessun
partito si era trasformato in imprenditore
politico della paura come ha fatto la Lega».

La vittoria di Grillo è a reazione dell’anti-politica
a questo disastro?

«Più che il trionfo dell’anti-politica, io vedo
nel voto una forte richiesta di altra politica.
Già le manifestazioni del 2010-2011, il po-
polo viola, e donne di “Se non ora quando?”,
avevano dimostrato che la Rete era in grado
di organizzare una piazza non solo virtuale
ma fisica, partendo da forze in apparenza
marginali. Fino a quel momento solo i gran-
di partiti, i sindacati e la Chiesa erano riusci-
ti a farlo. Il Paese si è messo in movimento,
sulla base di contenuti specici e con una
partecipazione diretta e spontanea senza
precedenti. La tv aveva svuotato le piazze, la
Rete le ha di nuovo riempite, come era suc-
cesso a Seattle nei cortei contro il Wto del
1999. Una richiesta di altra politica che ha
avuto esiti importanti, penso al risultato a
sorpresa per tutti gli osservatori dei referen-
dum su acqua pubblica, nucleare e legittimo
impedimento. Rifiutai di avere un ruolo nel
comitato sull’acqua perché era giusto che
rimanesse un movimento non personalizza-
to, senza leader Un dato che i partiti, com-
preso il Pd, non hanno ritenuto rilevante.
Bersani fece una scelta forte trascinando un
partito riluttante a dire sì ai referendum. Ma
poi c’era un mondo da comprendere e da
incontrare, bisognava aprire un canale di
comunicazione. Non è stato fatto».

Lo slogan del Movimento 5 Stelle recita che
“uno vale uno”: così per gli elettori ma anche
per gli eletti. Per Casaleggio la democrazia
rappresentativa va rovesciata, i partiti van-
no sostituiti con i comitati dei cittadini...

«Nella Rete tutti in partenza sono uguali, ma
può svilupparsi una predisposizione a inve-
stiture di capi carismatici. La Rete dà l’illu-
sione della sovranità di ciascuno, ma produ-
ce leadership. Il campo della battaglia per la
democrazia elettronica è aperto, nessun esito
è escluso, dal fascismo digitale al socialismo
realizzato. Il punto è: chi pone la domanda,
e quando? Zuckerberg ha provato a fare un
referendum tra gli utenti di Facebook, ma è
stato costretto ad annullarlo ed è rispuntata
la parola chiave della democrazia, la rappre-
sentanza. Casaleggio dice cose che sosteneva
già il capo della destra repubblicana ameri-
cana Newt Gingrich negli anni Novanta, in
chiave tendenzialmente autoritaria. Da noi il
successo di Grillo dimostra che vent’anni di
deserto di rappresentanza politica ha provo-
cato nei cittadini il massimo della richiesta di
rappresentarsi da soli. L'esito è aperto».

Grillo è un potenziale dittatore prodotto dal
Web, come teme qualcuno anche a sinistra?
O è l’embrione di una nuova politica?

«Finora Grillo si è mosso da predicatore. Nel
fenomeno Grillo ci sono la Rete, lo Tsunami
tour, i media tradizionali che usa con astuzia.
Parla di comunità, parola che può diventare
rischiosa se si allude a un’identità chiusa agli
altri, un recinto. Ma la Rete dovrebbe servire
a far saltare le barriere, dovrebbe esserci
quasi l’obbligo di andare a vedere le opinioni
degli altri, i link ai siti che non la pensano
come te. In 5 Stelle vedo cose che ancora non
conosciamo e alcune potenzialità».

Sono il nuovo '68, l'immaginazione al potere?

«Nel ’68 insegnavo già, ero una contropar-
te... C’è una rivolta generazionale, questo sì.
Una cittadinanza informata e una voglia di
imparare. Sento dire che chiameranno qual-
che esperto a fare ezione di diritto parlamen-
tare, è positivo. E può rappresentare anche
una soluzione all’uso dei fondi pubblici per i
gruppi parlamentari. Non volete i soldi per i
portaborse? Benissimo, prendeteli per mette-
re su un pool di esperti di alto livello. Più in
generale, i nuovi parlamentari dovranno
conoscersi, misurarsi con le aule legislative.
In questi anni il Parlamento ha perso ruolo,
quando ero deputato io si diceva che legife-
rasse solo sulle cozze, poi è finito ad appro-
vare decreti con voti di fiducia, ora deve
tornare al suo ruolo di legislazione di princi-
pio e di controllo. E aprirsi alla società, anche
con forme di democrazia diretta. Penso alle
leggi di niziativa popolare che devono essere
messe obbligatoriamente in discussione, co-
me i referendum. Se fosse così, l’arrivo di 5
Stelle può diventare l’occasione per restituire
centralità al Parlamento, farlo tornare luogo
di comunicazione tra politica e cultura».

L’esordio, però, non è incoraggiante. Grillo
ha attaccato il divieto di vincolo di mandato
per i parlamentari tutelato dalla Costituzio-
ne: potrà tollerare l’autonomia dei suoi?

«Ma il lavoro parlamentare non funziona
così! O si nega ai parlamentari qualsiasi au-
tonomia, e li si trasforma in una specie di
osservatori in Parlamento che non votano e
non decidono. Oppure si entra nel gioco,
come è accaduto in Sicilia».

Lei ha firmato un appello per il voto alla
coalizione Pd-Sel. Si può fare un governo
guidato da Bersani appoggiato da 5 Stelle?

«Del segretario Pd ho apprezzato la polemi-
ca contro la personalizzazione della politica,
la scelta di non mettere il nome nel simbolo.
Non condivido la violenza e la frettolosità
con cui nel Pd è stato aperto un processo a
Bersani. Ora c’è un fatto stituzionale che una
personalità dello scrupolo di Napolitano
terrà n gran conto: a coalizione progressista
ha la maggioranza alla Camera ed è il primo
raggruppamento al Senato. Da questo non si
può prescindere. Il voto ci consegna altre due
indicazioni: la vittoria di 5 Stelle e il netto
riuto dell’agenda Monti. E questo aiuta a
definire i contenuti per un governo possibile.
Il vero dovere del Pd è consegnare all’opinio-
ne pubblica l’agenda della ricostruzione morale
e civile del Paese. Un punto di chia-
rezza, non in base a forzature deologiche, ma
alla realtà: il disastro miserevole della Secon-
da Repubblica, la crisi economica e sociale, i
risultati di questo ventennio».

Quali sono i punti di questa agenda?

«Primo: regole estremamente severe e sem-
plici sulla moralità pubblica. Qui sì, vorrei
più decisionismo. Non sono un nemico del
nanziamento pubblico ai partiti, ma biso-
gna tornare a livelli di accettabilità sociale.
Via i benet che non hanno giusticazioni,
via i soldi per cene e manifesti, bisogna ripor-
tare la politica a comportamenti virtuosi.
Non c’è solo la legge elettorale. Secondo
punto: il reddito di cittadinanza. Grillo ne ha
parlato, io ritengo che sia la precondizione
della cittadinanza, un diritto per tutti i citta-
dini. Susanna Camusso è contraria, teme che
su questa strada si stravolga la dimensione
contrattuale dei diritti, ma non c’è alternati-
va, va interamente ripensato il sistema degli
ammortizzatori sociali, accompagnato dalla
legge sulla rappresentanza sindacale che
vuole anche la Fiom. Sa cosa mi ha detto un
importante dirigente sindacale? Che metà dei
suoi delegati vota 5 Stelle. E poi un pacchetto
di interventi urgenti di politica industriale,
politiche sul lavoro, nella cornice di un’Eu-
ropa che riprenda la strada dei diritti. Inne,
c’è un ultimo punto, trascurato».

Quale?

«I diritti civili. Dopo le tante timidezze
degli ultimi anni l’asse portante del Pd, la
ricerca di un accordo con l’Udc, è stato
eliminato non da una scelta ma dagli elet-
tori. Ora nalmente si aprono nuove op-
portunità, un’autostrada per riprendere
quello che era stato fatto da un’Italia civi-
lissima negli anni Settanta, leggi che ci
avevano portato tra i Paesi più avanzati al
mondo. Con una maggioranza di 340 de-
putati alla Camera puoi far passare prov-
vedimenti importanti, come la riforma
della legge sulla procreazione già riscritta
dall’Europa, e poi andare al Senato. Serve
un cambio di passo. Su questo e su altri
temi, come la legge sul conitto di interes-
si, il mio consiglio al Pd è: fate i grillini!».

E se il dialogo tra Pd e 5 Stelle si spezza?
Tornerà il governissimo Pd-Pdl-Monti?

«Se si torna a quel tipo di soluzione a sinistra
si fa del male. È ora di dire basta alle trattati-
ve coperte. Il cambiamento deve avvenire sui
contenuti, non sulle negoziazioni».

Oltre al governo c’è da eleggere il nuovo
presidente della Repubblica. Su Twitter
rimbalza l’hashtag #rodotaforpresident.

«Vivo queste manifestazioni con il giusto
distacco ironico, è un periodo ipotetico
dell’irrealtà. Ho lasciato la politica parla-
mentare quasi vent’anni fa, non ho tratto
beneci personali dai miei incarichi, ho
riutato diverse offerte: una volta mi chia-
mò Prodi dalle Nazioni Unite chiedendomi
di fare il commissario della Federcalcio,
amo molto lo sport, a malincuore dissi di
no... Se guardo indietro vedo che ho fatto
sempre quello che mi sentivo capace di
fare. E alla mia età mi fa sinceramente
piacere che qualcuno si ricordi di me».

Che una figura estranea ai giochi come lei
circoli tra i papabili al Quirinale forse testi-
monia che l’Italia sta davvero cambiando...

«Questo non tocca a me dirlo!».

Mi emoziona sempre trovare un mio articolo in prima pagina sul Piccolo di Trieste

Qui il mio pezzo in forma testuale:

http://notenotizie.blogspot.it/2013/03/le-riforme-che-servono-al-paese-se-non.html



mercoledì 6 marzo 2013

Chi è Paolo Becchi, il professore genovese che va in tv e parla (a titolo individuale) a nome di Grillo

Sul FOGLIO del 6 marzo 2013

Becchi, filosofo grillino che diceva “no” ai trapianti di organi e “forse” alle rivoluzioni armate

di MARIANNA RIZZINI

C’è un signore che in questi gior-
ni si affaccia dai teleschermi con barba e
capelli da Karl Marx (ma lisci), occhiali ne-
ri a rettangolo e pallore ottocentesco, defi-
nendosi “simpatizzante” del Movimento
cinque stelle, “votante” del Movimento cin-
que stelle e “onorato” di scrivere sul blog
di Beppe Grillo post euroscettici a uso e
consumo del Movimento cinque stelle. E vi-
sto che il Movimento cinque stelle, al mo-
mento, parla solo via oracolo (il suddetto
blog, appunto), il professor Paolo Becchi,
così si chiama, docente di Filosofia del di-
ritto all’Università di Genova, unico a ri-
spondere ai media con qualcosa che non
sia un “no comment”, fa le veci dell’intel-
lettuale (quasi) organico, seppure, come di-
ce sempre, a titolo “individuale”. E fa an-
che le veci della Sibilla, Paolo Becchi,
quando diffonde a suo modo il verbo della
centrale operativa Grillo-Casaleggio, e dice
che per lui non è “una brutta idea” l’idea
di un grande fratello in cui gli italiani, in-
vece di informarsi attraverso giornali, tv,
radio e giornalisti, vanno, come vuole Gril-
lo, a leggere direttamente sul blog di Gril-
lo quello che pensa, dice e fa il primo par-
tito eletto alla Camera. E quelli che non ci
vanno, sul Web? gli chiedono (ma lui, con
vezzo da ancien régime, lo chiama ancora
“veb” con la “v”). E i parlamentari che de-
vono rispondere al popolo italiano? Ma lui
fa spallucce. Anche perché poi lui, Becchi,
sui giornali ci scrive – e volentieri. Negli ul-
timi giorni è stato, in sequenza, sul Secolo
XIX e sul Corriere della Sera, e sempre per
parlare di “prorogatio” del dimissionario
governo Monti, di cui peraltro ha detto pe-
ste e corna (e ieri Massimo Bordin, pilastro
storico della rassegna stampa di Radio Ra-
dicale, a un certo punto si è spazientito:
“Vabbè, l’illustre studioso Becchi, anche
qui… il giro delle sette chiese”).
Prorogatio per gli “affari correnti”, dice
Becchi anche a “In onda” e a “Piazzapuli-
ta”, in collegamento da Genova, su sfondo
di natura morta (fiore floscio adagiato in un
acquario) e scaffale di libri che, per grado
di non consunzione, ricordano vagamente
le distese enciclopediche del Cav. – ma il
contenuto le surclassa in sincretismo: si
scorge infatti “Il palazzo e la piazza” di
Bruno Vespa accanto a una raccolta di poe-
sie di Pascoli e ai due romanzi fantasy “El-
dest” e “Inheritance” di tal Christopher
Paolini (trattasi di una saga di elfi, nani,
mezzi-elfi, draghi e “storpi che sono sani”).
“Prorogatio” per “affari correnti”, ripete
Becchi, forse con la speranza di indicare
una strada al Grillo che dice “no” ai tecni-
ci e pure al Monti “politico” e “foglia di fi-
co”. “Prorogatio” con mandati esplorativi
“inscenati”, dice Becchi, consultazioni che
iniziano e non si sa se finiscono e Parla-
mento che legifera su affari tutt’altro che
correnti, come “la legge elettorale, il taglio
dei costi della politica, la legge anticorru-
zione, il conflitto di interessi”. E’ una “mes-
sa in stato vegetativo permanente del go-
verno Monti”, dice il professore anche no-
to per il revisionismo bioetico sul tema
“morte cerebrale e trapianti di organi” e
per il possibilismo sul tema “rivoluzioni
“con le armi”.
L’intellettuale quasi-organico del grilli-
smo, infatti, studioso di Hans Jonas e au-
tore, nel 2008, di un libro intitolato proprio
“Morte cerebrale e trapianto di organi”, è
convinto, così si legge nella presentazione
del saggio, uscito nel 2008, che “la nuova
definizione della morte”, risalente alla fi-
ne degli anni Sessanta, sia stata “soprat-
tutto un abile escamotage”: quello di “de-
finire morti esseri umani che di fatto anco-
ra non lo sono, in modo da legittimare il
prelievo a cuore battente dei loro organi”.
(L’Osservatore Romano, all’epoca, si era
molto incuriosito). Oggi Becchi, travolto da
passione per la “democrazia diretta” e da
ottimismo per la “bellissima festa” che ve-
de tutt’attorno a sé dal giorno di piazza
San Giovanni, scrive e-book dal titolo
“Nuovi scritti corsari” (edizioni Adagio).
Sottotitolo: “Meglio una fine spaventosa
che uno spavento senza fine”. L’idea (di
Becchi) è quella di “riprendere, a mezzo
secolo dagli articoli ‘eretici’ di Pier Paolo
Pasolini, la necessità di un pensiero scan-
daloso e controcorrente che sappia far lu-
ce su quanto accaduto in Italia nel corso di
quest’ultimo anno, dal ‘colpo di stato’ di
Re Giorgio Napolitano alla nascita di una
Terza Repubblica controllata dai ‘tecnici’
e da un potere senza volto, dalla ‘violazio-
ne in forma legale’ della Costituzione fino
alle vicende legate alla trattativa stato-ma-
fia, dalla crisi finanziaria e sociale alla
dittatura imposta dall’euro e dall’Europa
di Francoforte e Bruxelles”.
Amante dei gatti anche più dello spin
doctor a cinque stelle Gianroberto Casa-
leggio, Becchi pensa che “alla perdita di
ogni forma di potere legittimo” solo una
“forza nuova, giovane e rivoluzionaria può
ormai fare fronte, ricordandoci che ‘i po-
poli non dovrebbero aver paura dei propri
governi. Sono i governi che dovrebbero
aver paura dei popoli’. E’ il Movimento 5
stelle, ossia la speranza di un nuovo futu-
ro, mentre tutto il resto è, ormai, ancorato
al passato”. Come viene viene, la “forza ri-
voluzionaria”, par di capire: qualche mese
fa, infatti, intervistato da Radio 24 a “La
Zanzara”, parlando delle manifestazioni
studentesche, Becchi aveva molto lodato
Grillo che invitava i poliziotti a unirsi agli
studenti in piazza, e aveva teoricamente
ammesso, perché no, “rispetto al marciu-
me”, l’idea di una “tabula rasa”, una “pu-
lizia”, un “annientamento” del ceto politi-
co esistente con qualsiasi mezzo, anche
con “le armi”, se “necessarie” (“… non mi
illudo, non è un pranzo di gala”). E piutto-
sto che vedere gli studenti “sputare su He-
gel”, come il professore aveva letto su un
tadzebao, avrebbe voluto lui stesso “sputa-
re” in faccia a Monti, “anche a costo di fi-
nire in galera”, “e ancora di più a Prodi”
(oggi nome in lizza per il Quirinale, sotto la
voce “non così sgradito ai grillini”).

lunedì 4 marzo 2013

Le riforme che servono al paese: se non ora, quando?

Pubblicato su alcuni quotidiani Finegil (mattino di Padova, Alto Adige etc.) il 5 marzo 2013

di CLAUDIO GIUA

In Austria per un meeting editoriale, ho passato due cene e alcune pause caffè a spiegare a tedeschi, francesi, spagnoli, inglesi, persino greci che l'esito del voto italiano va letto come un insieme di segnali - contraddittori ma chiari - mandati ai nostri politici. I quali ora sanno che l'elettorato non vuole affidare il paese a chi, quando ne ha avuto l'occasione, non ha saputo cambiare le regole ed eliminare le disuguaglianze; che le bugie dei corruttori morali e materiali sono ancora la moneta corrente preferita da quanti non pagano le tasse, odiano i diversi, ripudiano la solidarietà; che non si riesce più a incanalare la rabbia sociale e la delusione in dieci partitini senza rappresentatività ed efficacia, ma confluiscono in un unico contenitore di proprietà di un comico e del suo guru. Con i colleghi stranieri ho sostenuto che, se le elezioni non hanno avuto un vincitore che garantisca la governabilità, tuttavia hanno fatto emergere tre forze quasi equivalenti che saranno costrette a trovare l'accordo su pochi punti programmatici finalmente innovativi.

Non li ho convinti. Konstantinos, che vive e lavora ad Atene, è stato il più tassativo nel bollare senza sbocchi la nostra situazione (e dalle sue parti sono esperti in crisi irrisolvibili). Rosalia, madrilena di formazione britannica, m'è sembrata sollevata mentre prevedeva che, impercorribili le vie interne, "solo Bruxelles e Berlino avranno il potere di salvare noi e voi, con costi sociali altissimi". Jean Christophe, parigino, era dell'opinione che per colpa nostra il suo paese finirà presto nei guai: ha un po' tentennato alle mie argomentazioni ma poi è arrivato a dargli man forte un altro francese, Luc, che ci ha mostrato la prima pagina del Kronen Zeitung, oltre un milione di copie vendute ogni giorno in Austria, con il titolo "L'Italia trascina l'Europa nel caos". Storia finita.
Sono rientrato con la sensazione che molti europei soffrono del nostro stesso strabismo pessimista e fazioso, quello che ci fa giudicare con la massima severità i comportamenti dello schieramento avverso e altrettanta indulgenza quelli di chi sta con noi. Osservandoci, i nostri vicini non mettono più a fuoco né i problemi reali né quel poco che ancora funziona in Italia. Un peccato, visto che, tra ritorni berlusconiani, paure di contagio grillino, papi dimissionari e conclavi, mai come in questo momento il nostro paese è tra gli ombelichi mediatici d'Europa e del mondo.

Per convincere gli altri che abbiamo volontà e energie per farcela, tocca a noi cambiare registro. Troviamo e proviamo soluzioni, con meno vittimismi e senza elencazioni litaniche dei mali nazionali. Possiamo cominciare da piccoli fatti esemplari. Alcune settimane fa avevo contestato in un articolo la legge che impedisce di pubblicare i risultati dei sondaggi nelle ultime settimane di campagna elettorale. Così si sottrae un elemento di giudizio agli elettori, ragionavo. Sbagliavo. Sbagliavo talmente di grosso da farmi provocatoriamente dire ai colleghi europei incontrati in Austria che sarebbe opportuno che il nuovo parlamento mettesse tra le proprie priorità la proibizione perenne di qualsiasi sondaggio politico, visti i disastri provocati da Mannheimer, Piepoli, Masia, Pagnoncelli e altri ospiti fissi di telegiornali e talk show. Sono loro che per mesi hanno sfornato numeri su numeri secondo i quali Berlusconi valeva meno del venti per cento, il centrosinistra aveva un vantaggio incolmabile, Grillo avrebbe al massimo ben figurato come punto di riferimento dell'endemica area di protesta, com'era successo in passato con la Lega, Rifondazione, Di Pietro, una volta anche con i radicali.

Ovviamente, proibire i sondaggi non si può. Ma i media potrebbero, per un giro di giostra, non incaricare alcun istituto di raccogliere le intenzioni di voto. Tanto per vedere cosa succede.

Sto rimuginando queste idee un po' strampalate quando incontro Miri, albanese, capo degli "uomini dei campi" in un circolo del tennis. Da vent'anni in Italia, ancora non ha la cittadinanza. Mi chiede con fare affermativo: "Le cose vanno bene, no?". Cioè, Miri? "Se volete cambiare qualcosa, ora avete le migliori condizioni per farlo. Legge elettorale, conflitto d'interesse, norme contro la corruzione, salario di cittadinanza: un accordo tra Grillo e Bersani, un anno di riforme a testa bassa e poi si torna a votare. Non c'è mai stata, da quando sono qui io, questa possibilità. Prendi la proposta del dimezzamento dei parlamentari: se non lo fa il Parlamento più giovane d'Europa, significa che è solo propaganda". Peccato che Miri non possa candidarsi: lo voterei, la prossima volta.
Mail c.giua@kataweb.it
Twitter @claudiogiua




domenica 3 marzo 2013

Perchè anche adesso, nell'era delle start up, abbiamo da imparare da New York

dalla Stampa di domenica 3 febbraio 2013

Pubblichiamo la prefazione di Carlo De Benedetti al
libro Tech and the City - Startup a New York. Un mo-
dello per l’Italia di Maria Teresa Cometto e Alessan-
dro Piol, in libreria il 7 marzo (Guerini e Associati,
22 euro).

Basato su 50 interviste con i protagonisti
della comunità tecnologica di New York, il libro rac-
conta come la città si è ripresa più in fretta dalla
Grande Recessione rispetto al resto d’America gra-
zie al suo spirito imprenditoriale e all’impegno del-
l’amministrazione Bloomberg a puntare sull’inno-
vazione.

Così New York è diventata la nuova capitale
mondiale delle startup: è un modello replicabile an-
che in Italia? Se lo chiedono gli autori, da anni resi-
denti nella Grande Mela – Cometto come giornalista
che scrive di business e tecnologia per il Corriere
della Sera, Piol come venture capitalist e mentore di
giovani startupper - ; e forniscono anche una guida a
chi pensa di andare a New York per lavorare nel set-
tore high-tech oppure a studiare.



di CARLO DE BENEDETTI

Ci sono luoghi dove l’uomo
mette meglio a frutto al-
cune sue attitudini. A Ge-
rusalemme e Varanasi la
fede e la spiritualità
s’esprimono in forme altrove impen-
sabili. Per più d’un secolo, a cavallo
tra XIX e XX secolo, le arti figurative
erano a Parigi o non erano. E lo stes-
so accadde in Italia lungo tutto il Ri-
nascimento e oltre. Da cinquant’an-
ni a Hong Kong e Londra vengono
coltivati e curati amorevolmente ef-
ficaci ecosistemi per il denaro e gli
investimenti. La Mitteleuropa è sta-
ta la più prolifica fucina della lette-
ratura del Novecento. A Boston han-
no casa e bottega le più lucide teste
della ricerca scientifica.

Ci sono poi luoghi dove il continuo
apporto di intelligenza ed entusia-
smo rende possibili diverse e mute-
voli avventure umane. Luoghi che
definirei «interdisciplinari». È il ca-
so di New York: non c’è città al mon-
do che abbia saputo incarnare al-
trettanto bene molti zeitgeist moder-
ni, gli spiriti del tempo di economia,
spettacolo, cultura, fashion trend, in-
formazione. Nel secondo dopoguer-
ra sapere cosa stava succedendo a
New York ha significato sapere cosa
sarebbe successo altrove.

È tuttora così. Anche quando sem-
bra che New York abbia perso il treno
della modernità, scopri che era salita
a bordo, eccome. È il caso di Internet,
che a lungo abbiamo pensato avesse
Silicon Valley come esclusiva tech-
nursery americana, quasi che solo lì
un’idea digitale avesse qualche possi-
bilità di crescere e talvolta imporsi.
Invece Maria Teresa Cometto e Ales-
sandro Piol, newyorchesi per scelta
convinta, ci raccontano come nella
Grande Mela ci si stesse attrezzando
per riprendere la leadership digitale
solo temporaneamente ceduta. Ope-
razione conclusa, visto che la migra-
zione dei nerd tra le due coste sta in-
vertendo direzione, e ora si va di più
da Ovest verso Est, dalla Silicon Val-
ley alla Silicon Alley.

Quel che mi ha sempre colpito di
New York è la sua capacità di rinno-
varsi. Fu così negli Anni 70, quando la
città affrontò il fallimento virtuale
dell’amministrazione comunale, è ac-
caduto di nuovo nel 2001 dopo l’afflo-
sciarsi della bolla digitale e nel 2008
con il crollo seguìto alla crisi dei sub-
prime e all’esecuzione esemplare di
Lehman Bros. Le crisi a New York
passano prima perché la città dispo-
ne di risorse altrove scarse, come ho
potuto constatare personalmente in
tanti anni di frequentazione costante
delle sue comunità degli affari e della
produzione. A quelle più classiche - la
predisposizione al rischio imprendi-
toriale, la creatività, la concentrazio-
ne di competenze - la città ha aggiun-
to negli ultimi anni nuove risorse:
l’entusiasmo di chi si sente parte della
locale affluente società di Internet e
si impegna al massimo per farla cre-
scere, l’operosità di un’amministra-
zione pubblica amica dei nuovi im-
prenditori e impegnata in una campa-
gna per valorizzarli.

Nella stagione della Rete a mar-
chio newyorchese (che sarà lunga) c’è
una parola - startup - che è simbolo di
una dimensione imprenditoriale per
sua natura inafferrabile perché pro-
teiforme. Le startupmettono natural-
mente insieme innovazione, business
e giovani in infinite variazioni tecno-
logiche, culturali, economiche. Ma il
mix funziona soltanto in condizioni
particolari, che in California sono state
la concentrazione in un’area limitata di
università come Stanford, di investitori
in cerca di aree di sviluppo non tradi-
zionali, di comunità locali attraenti. Il
boom delle startup newyorchesi ha in-
vece le sue radici nelle «vecchie» indu-
strie dei media, della pubblicità, della
moda e della finanza, che hanno avver-
tito con colpevole ritardo la necessità
di digitalizzarsima che poi hanno adot-
tato in massa le nuove tecnologie rivo-
luzionando i proprimodelli di business.

Il «fattore giovani» è quello unifi-
cante tra le Silicon Valley e Alley per-
ché in America c’è da sempre grande
rispetto delle idee dei giovani. Tutte le
startup di New York descritte da Co-
metto e Piol sono ideate e guidate da
ventenni e trentenni, mentre le gene-
razioni più «vecchie» - a volte solo di
dieci anni - si adoperano per fare loro
da mentore. Molto diffusa è la pratica
del give back, del restituire agli altri e
alla società qualcosa che si è ricevuto
nella fase di costruzione della propria
fortuna imprenditoriale. Un atteggia-
mento solidale così pervasivo da aver
bisogno di organizzazioni che si occu-
pano di facilitare questo tipo di volon-
tariato.

Una condizione favorevole che
in Italia non esiste. Da noi l’entusiasmo
dei giovani viene soffocato per tenere
il posto agli anziani, perdendo così per
strada intere generazioni di talenti, i
migliori dei quali devono per forza an-
dare all’estero per avere successo o co-
struire il loro sogno. E New York è ben
contenta di accoglierli.

Quella raccontata da Cometto e Piol
è la storia corale di una città-startup,
dove a parlare sono i protagonisti e le
aziende con le sue nuove idee trainanti.
Ma leggendola viene da chiedersi per-
ché qualcosa di analogo, seppure in
scala ridotta, non possa avvenire da
noi. A Milano o a Torino, per esempio.

Faccio al proposito
tre considerazioni.
La prima è che il
ruolo dell’ammini-
strazione pubblica
è essenziale: è il se-
ed, come lo chiama-
no a New York. Il sindaco Michael
Bloomberg e i suoi principali collabo-
ratori, alcuni dei quali conosco perso-
nalmente, hanno messo tra le proprie
priorità la creazione di private/public
partnership per riformare i sistemi
educativi e la costituzione di fondi di
investimento che facciano partire
nuovi settori industriali. I governi cen-
trale e locali italiani non s’impegnano
invece per creare adeguate condizioni
per le startup e a favorire partner pri-
vati che ci mettono il resto.

La seconda considerazione è che in
Italia la semplicità spaventa perché
aiuta tutti a concorrere. Dunque, anzi-
ché eliminare barriere, cooperare, fare
sistema - la cultura dell’open source - si
fa il contrario, s’alzano ostacoli, l’infor-
mazione diventa potere, lo scambio di
esperienze è malvisto dalle aziende, gli
oligopoli vengono tutelati. Milano e la
Lombardia avrebbero dovuto sfruttare
il volano dell’Expo 2015 per lanciare
concorsi di idee per aziende innovative
abbattendo ostacoli e liberando ener-
gie. Non è successo. Ma forse c’è anco-
ra tempo per fare qualcosa.

Infine, il caso New York non è copiabi-
le. Va studiato e assimilato. Ne va assor-
bito lo spirito creativo. Va reinterpreta-
to in chiave italiana. Senza illusioni, pe-
rò: un tempo la creatività eramerce eli-
taria, oggi la globalizzazione sparge i se-
mi dell’innovazione nella griglia infinita
della Rete, l’iniziati-
va vincente può na-
scere aTashkent o a
Bangalore, tanto
per citare due luo-
ghi dove davvero s’è
fatto molto per - co-
me dire? - anticipare il futuro.

Siamo al punto di partenza: il genius
loci può essere decisivo, però si deve
anche sapere che quasi mai basta. La
mia posizione è nota: per ripartire biso-
gna (ri)mettersi in gioco. Siamo tutti
esposti a tutto, in un regime di comuni-
cazione orizzontale, in una competizio-
ne di idee, soluzioni, proposte che è il
nuovo modo di fare business. Sapendo
che il più grande fattore di innovazione
è la volontà di migliorare il proprio de-
stino. È stato sempre così.