martedì 30 aprile 2013

Travaglio legna tutti. Il mestiere che gli viene meglio

Il Fatto di domenica 28 aprile 2013

Hanno ragione il presidente
ridens Piero Grasso e i no-
ti moderati Alemanno, La Rus-
sa, Storace, Barani, Maroni,
Prestigiacomo, Sallusti, Ga-
sparri e la sua signora Gasbarra:
serpeggia, anzi tracima in Italia
un eccesso di opposizione che
può armare la mano di qualche
testa calda. Basta aprire un gior-
nale o un tg a caso per imbattersi
in orde di giornalisti ipercritici,
addirittura feroci contro il go-
verno Napoletta e i partiti che lo
compongono. Un coro presso-
chè unanime di attacchi forsen-
nati che è francamente difficile
distinguere dalle pallottole.

Tanto da far sospettare che lo
sciagurato attentatore, ieri mat-
tina, prima di aprire il fuoco sul
Parlamento fosse passato in
edicola o almeno reduce da una
full immersion negli speciali te-
levisivi degli ultimi giorni. Ne
pubblichiamo qui una piccola
antologia, sempre ribadendo il
monito del Capo Supremo af-
finchè la stampa smetta di “rin
focolare” e inizi a “cooperare”.
Letterman Show. “Il governissi-
mo delle facce nuove”, “Napo
litano, missione compiuta”,
“Letta, 77 ore per disinnescare
la guerra civile Pd-Pdl”, “Sacco
manni, il tecnico che non fa
sconti alla finanza mondiale”,
“La missione di Giovannini: ri-
lanciare l'occupazione”, “Far
nesina in festa per l'arrivo della
Bonino” (La Stampa). “Gover
no Letta: record di donne, su-
pertecnici e quarantenni” (il
M e s s a g g e o . “Più donne e gio-
vani, la squadra di Letta”, “Letta
è premier: donne e giovani. Pro-
vo una sobria soddisfazione”,
“Ritorno alla realtà”, “Sul go-
verno il sigillo del Colle. E si
apre il cantiere delle riforme”,
“Campane a festa per D'Alia”
(Co r r e re ). “Governo giovane e
in rosa”, ”Straordinari doveri”,
“Quagliariello: ‘E ora pacifica-
zione’”, “Su Interni e Giustizia
la mossa decisiva” (Av ve n re ).
“La nuova generazione”, “Le si-
gnore della competenza”, “Ecco
il governo Letta, giovani e don-
ne” (Re p u b b ca ).

Ancora nessuna notizia dei bambini.
Pigi Lettista. “I due partiti mag-
giori che si accingono a formare
un governo presieduto da Letta
stanno compiendo un atto co-
raggioso. Sanno che per loro
questa è l'ultima chiamata. San-
no che non possono fallire”
(Pierluigi Battista, Corriere,
25-4). Combattenti di terra, di
mare e dell'aria! Camicie nere
della rivoluzione e delle legioni!
Uomini e donne d'Italia, del-
l'Impero e del regno d'Albania!
Ascoltate! Un'ora segnata dal
destino batte nel cielo della no-
stra patria. L'ora delle decisioni
irrevocabili. La parola d'ordine
è una sola, categorica e impe-
gnativa per tutti. Essa già tra-
svola ed accende i cuori dalle
Alpi all'Oceano Indiano: vince-

Stefano Menichetta. “In
questi giorni si sconta
l’antica cessione di au-
tonomia in favore di un
ceto intellettuale che del radica-
lismo tendente al giustizialismo
fa la propria ragion d’essere. I
Travaglio, i Padellaro, i Flores
che... annullano la persona di
Enrico Letta perché ‘nipote’ so
no personaggi che fanno orrore.
Il loro linguaggio suscita repul-
sione. Il loro livore di sconfitti
mette i brividi. Ma in condizioni
normali il loro posto dovrebbe
essere ai margini, in quell’ango
lo della società e del dibattito
pubblico dove sempre si collo-
cano gli odiatori di professione.
Solo qui capita che da quell’an
golo si riesca a condizionare gli
umori della sinistra italiana che
... ha sempre cercato di parlare e
di ragionare di politica, lascian-
do ai neofascisti la necrofilia e
l’intimidazione. Ha problemi
grossi da risolvere, Letta. Ma
sembrano inezie se paragonati
alla guerra contro i battaglioni
della morte che dobbiamo vin-
cere noi” (Stefano Menichini,
E u o p a 26-4). E vinceremo, per
dare finalmente un lungo perio-
do di pace con la giustizia all'I-
talia, all'Europa, al mondo.
Beppe Lettergnini. “L'incarico a
Letta non ha ancora 48 ore e già
si sentono i soliti commenti bel-
licosi, le consuete dichiarazioni
stentoree... Questa è l'ultima
spiaggia della Penisola: più in là
c'è solo il mare in tempesta e un
azzardo pericoloso. I saggi no-
minati dal presidente Napolita-
no si sono rivelati concreti. In
poco tempo hanno prodotto
poche pagine di buone idee: nel
Paese pleonastico, una piccola
rivoluzione... L'Italia ha voglia
di novità. È primavera: bisogna
cambiare aria nelle stanze e nel cervello... Enrico
Letta è un uomo competente, calmo e relativa-
mente giovane” (Beppe Severgnini, Co r r e re
26-4). Ma anche marito premuroso, padre esem-
plare e soprattutto nipote.

Aldo Cazzulletta. “Non ha citato Kennedy – ‘la
fiaccola è stata consegnata a una nuova genera-
zione... ’ - ma ha detto più o meno le stesse cose,
Napolitano. Le ha dette mentre affidava l'incarico
di formare il ‘suo’ governo a un uomo di cui po-
trebbe essere il nonno”. Il posto di zio era già im-
pegnato. “L'Italia, paese considerato gerontocra-
tico, fa un salto in avanti inatteso e si colloca al-
l'avanguardia in Europa... A Palazzo Chigi arriva
il ragazzo che amava il Drive In e gli U2” (Aldo
Cazzullo, Corriere re 25-4). Largo ai giovani, pancia
in dentro e petto in fuori.

Alessandro Salletta. “Complimenti Gina, al se-
colo Gianna Fregonara (giornalista del Corriere,
ndr), candidata first sciura del Paese. Per l'inca-
rico al marito, ovvio, ma soprattutto perchè sono
certo che se oggi Enrico Letta è sulla soglia di Pa-
lazzo Chigi dietro c'è lo zampino della moglie, la
Gina appunto. E senza presunzione, mi prendo
un piccolo, assolutamente casuale merito per
averla spinta con qualche sotterfugio a Roma tra
le braccia del suo futuro marito che all'epoca dei
fatti né io né lei conoscevamo... Tornava sempre
con la notizia giusta e si aprì la strada con le sue
capacità. Anni dopo non tornò più, aveva trovato
la notizia del fidanzato giusto. Tale Enrico Letta. E
dopo non poca sofferenza, come nelle favole, vis-
sero felici e contenti e con tre figli. Brava Gina,
non ci deludi mai” (Alessandro Sallusti, il Gior-
nale, 25-4). Anche il povero Sallusti, negli ultimi
giorni, ha passato notevoli sofferenze, soprattutto
alla lingua: molto capiente, ma non abbastanza
per abbracciare, oltre al Pdl e al suo padrone, an-
che tutto il Pd e persino Monti e i suoi. Come fare?
Alla fine ha optato per un trapianto di lingua, e
ora ne ha due. L'articolo sopra citato è stato scritto
con la seconda (il finale della fiaba è custodito nel-

l'apposito dossier “Fregonara” e sarà divulgato se,
Dio non voglia, il marito non facesse il bravo).
L E p a n a “Il Pd ritrovi coraggio” (Guglielmo
Epifani, l'Unità, 23-4). “Il Pd ritrovi la sua fun-
zione” (Guglielmo Epifani, l'Unità, 28-4). Ogni
cinque giorni, Guglielmo Epifani occupa uno
spazietto in basso a sinistra sulla prima pagina
dell'Unità per rammentare al Pd qualche oggetto
smarrito da ritrovare. Prossime puntate: “Il Pd ri-
trovi le chiavi di casa”, “Il Pd ritrovi il calzino si-
nistro”, “Il Pd ritrovi l'auto posteggiata in doppia
fila e rimossa dai vigili”. Seguirà, con comodo, “Il
Pd ritrovi i suoi elettori”.

Antonio Socciletta. “L'arte del compromesso ci
salverà dai moralisti. In un'omelia del 1981 Rat-
zinger elogiava la mediazione come strumento
della politica. Contro le ideologie che esaltano lo
Stato assoluto. Oggi tre politici cattolici, Enrico
Letta, Angelino Alfano e Mario Mauro, portano
avanti i valori di dialogo e razionalità che furono
di De Gasperi... Un nuovo umanesimo e un nuovo
rinascimento potrebbero essere l'orizzonte e
l'ambizione di questa pacificazione nazionale. Se
non fallisce e non viene sabotata” (Antonio Socci,
L b e o 27-4). Dio lo vuole. E anche Ratzinger. E
De Gasperi. Ma pure Lorenzo il Magnifico.

Claudio Sardoletta.Prima della cura: “Continuia
mo a pensare che le larghe intese costituiscano un
pericolo, che la riproposizione di uno schema si-
mil-Monti abbia troppe controindicazioni dopo
quanto è successo, che la frattura politica apertasi
nella società richieda una competizione traspa-
rente e differenze leggibili tra destra e sinistra”
(Claudio Sardo,l'Unità, 23-4). Dopo la cura: “Il
governo di Enrico Letta nasce da uno stato di ne-
cessità e da una grave sofferenza politica... Il go-
verno Letta, così nuovo e così difficile, è un'op-
portunità per la sinistra” (Claudio Sardo, l'Unità,
28-4). Che s'ha da fa' per campa'.

Claudio Sardomuto. “Nel suo governo non ci sono
i protagonisti del conflitto politico di questi anni...
Letta è riuscito a mettere insieme una squadra di
ministri giovani e a sottrarsi ai veti di Berlusconi,
promuovendo un rinnovamento generazionale
che, magari, potrà aiutare persino l'evoluzione
democratica del partito della destra” (C. Sardo,
28-4). Alfano, Lupi, Quagliariello e De Girolamo,
tutti aderenti alla celebre mozione parlamentare
“Ruby nipote di Mubarak”, sono notoriamente
estranei al conflitto politico di questi anni. E co-
munque, vivaddio, sono così giovani. Giovinetta,
giovinetta, primavera di belletta.

M'hai detto un Prospero. “D'Alema è temuto dalla
destra, che lo indica come il simbolo del nemico
irriducibile, che è meglio tenere alla larga perchè
richiama una storia, rievoca una tradizione, ri-
sveglia delle memorie che è preferibile spegnere
per sempre. Eppure un politico dell'esperienza
internazionale di D'Alema avrebbe potuto con-
tribuire all'azione incisiva di un governo che non
può rinunciare a definire dei momenti di svolta
nelle politiche prevalenti nello scacchiere euro-
peo. Un ponte solido verso la sinistra europea”
(Michele Prospero, l'Unità, 28-4). “La squadra ha
perso qualcosa in competenza e valore aggiunto
rinunciando a un ministro degli Esteri come Mas-
simo D'Alema” (C. Sardo, l'Unità, 28-4). Ecco l’u-
nico difetto nel governo Letta: manca D'Alema.

Il Lettaggero. Il direttore del M e s s a g gero Virman
Cusenza, giornalista ma soprattutto sarto, con-
feziona per il nuovo governo un abitino su mi-
sura. Titolo: “Un cambio di stagione”. Svolgi-
mento: “Non c'è commento migliore al governo
appena nato della foto che ritrae Giorgio Napo-
litano mentre stringe le mani di Enrico Letta. Ed è
difficile capire dove cominci la stretta del primo e
finisca la presa del secondo, come padre e figlio
sinergicamente s'affidano l'un l'altro prima delle
navigazioni impegnative della vita”. Corbezzoli,
gliele ha cantate chiare. Del resto, di fronte a quel-
le mani di fata, la prima domanda che si ponevano
pensosi tutti gl'italiani era appunto questa: chissà
dove comincia la stretta del primo e finisce la pre-
sa del secondo? Ah saperlo.

Ma anche: va bene il
Gentili colma anche questa la-
cuna: lo zio non c'è, ma c'era fino
a qualche minuto prima a reg-
gere la coda al Cainano, poi gli
ha telefonato: “Sei stato bravo,
Enrico, e sei molto maturato”.
Ecco, a 47 anni il pupo ha messo
su i primi dentini e sta per smet-
tere di gattonare. Per il resto, av-
verte il Cusenza, “il richiamo al
1946 non è casuale”: “Il nuovo
governo Letta è chiamato” a
“una piccola grande rifondazio-
ne del concetto di buon governo
perchè almeno generazional-
mente sono venuti meno io mu-
ri e gli steccati che hanno avve-
lenato gli ultimi decenni, con la
violenza e l'odio e la loro inter-
minabile scia di sangue”. In-
somma quella di De Gasperi che
nel '46 governò con Togliatti è
“un'impresa simile (al netto del
conflitto mondiale)” a quella di
Alfano che governa con Letta (al
netto dei processi a B.). Lo dice
anche Letta al M e s s a g g e o “Og
gi si chiude la guerra dei vent'an-
ni. Ora siamo all'armistizio. La
speranza è che scoppi la pace”.
Amnistia, si chiama amnistia.
Eugenio Lettari. Scalfari è il più
entusiasta, fin dal titolo dell'edi-
toriale: “Un medico per l'Italia”.

Non si sa a chi si riferisca,ma si
sa a chi non si riferisce: Alfano,
che essendo soltanto ilministro
dell'Interno e il vicepresidente
del Consiglio, non merita nep-
pure una citazione. “Nelle circo-
stanze date è un buon governo.
Enrico Letta aveva promesso
competenza, freschezza, nomi
non divisivi. Il risultato corri-
sponde pienamente all'impegno
preso, con un'aggiunta in più:
una presenza femminile quale
prima d'ora non si era mai ve-
rificata... Se i fatti corrisponde-
ranno alle parole molte soffe-
renze saranno lenite e molte
speranze riaccese”. Rimosso Alfano - ma anche
Lupi, De Girolamo, Lorenzin e Quagliariello, la
banda fresca e non divisiva della nipote di Mu-
barak - Scalfari ammira molto la “competenza”
dell'avvocato De Girolamo in tema di agricoltura,
o della signora Lorenzin (maturità classica) in
materia di Sanità, o di Andrea Orlando (maturità
scientifica, ex responsabile giustizia del Pd) in fat-
to di Ambiente. Però non ne cita nessuno, per pre-
cauzione. preferisce citare “Camillo Prampolini”
(non è uno scherzo, davvero, anche se nessuno
capisce che diavolo c'entri). Poi tributa il consueto
omaggio a Sua Castità Napolitano: Suo malgrado,
ha dovuto restare al Quirinale. Suo malgrado, ma
per fortuna del Paese”. Egli, ça va sans dire, “co
nosce benissimo i limiti e i doveri che la Costi-
tuzione li prescrive”: infatti li ha violati tutti nel
giro di qualche giorno. A questo punto, Scalfari
elenca i “molti precedenti” del governo Napoletta
nella storia della Repubblica.

Che poi sono due. Ilprimo è primo il patto Moro-Berlinguer
per lanon sfiducia ad Andreotti a metà anni 70, che però
non c'entra nulla, visto che il Pci non aveva mi-
nistri, nemmeno quando nel ‘78 votò per qualche
mese la fiducia. Il secondo è il governo Badoglio
del 1944, dove sì c'erano nello stesso governo mi-
nistri comunisti e democristiani: ma nemmeno
quello è un precedente, perchè l'Italia era ancora
una monarchia, oltre a essere ancora in guerra.
Insomma, i “molti precedenti” non esistono. Me-
glio tornare a Re Giorgio, “un presidente al di so-
pra delle parti” che, “salvo Ciampi, non è mai esi-
stito” perchè “garantisce tutti, ma garantisce so-
prattutto il Paese”. Ma garantisce soprattutto B.
Giuliano Lettara. “Ora i giudici devono deporre le
armi” (Giuliano Ferrara, il Giornale, 28-4). Wow,
era ora! Ferrara, sempre così informato, ci farà
sapere quanto dura l'armistizio, e soprattutto la
decorrenza e la scadenza. Insomma, da quando a
quando c’è licenza di delinquere. Così magari,
prima che i giudici riprendano le armi, gli sfiliamo
il portafogli o gli svaligiamo la casa.

Marco Follini misura la democristianità di Enrico Letta. È tanta. Per fortuna, mi viene da dire.

Dall'Unità del 30 aprile 2013

di MARCO FOLLINI

Si sta discutendo molto in queste ore del carattere
«democristiano» di Enrico Letta e del suo governo.
Prevedo che se ne discuterà a lungo. Un po’ perché
la matrice è quella, e non la si può disconoscere.
E un po’ perché la questione democristiana, co-
me si sarebbe detto una volta, resta uno dei gran-
di nodi non sciolti dell’identità politica del no-
stro Paese.

Il nuovo premier, di suo, ha molto della mi-
gliore Dc. E l’operazione che lo ha lanciato, a
sua volta, ha caratteri che ricordano da vicino
alcuni tratti di quella lunga stagione politica.
È democristiana l’idea che si debba mediare,
includere, farsi flessibili e possibilisti, tentare le
strade del compromesso. È democristiana l’in-
vocazione di un rito di pacificazione che andreb-
be celebrato anche per espiare i troppi anni pas-
sati a combattere guerre che ricorderemo più
che altro per la loro inconcludenza. È democri-
stiana, se così posso dire, la stessa evocazione
della figura biblica di Davide.Un modo per ricor-
dare che la forza del potere sta soprattutto nella
suamitezza, nella consapevolezza del suo limite
fondamentale.

È ovvio che nella storia del Paese la Dc è stata
molte altre cose, e non tutte così nobili e positi-
ve. Ed è ovvio e risaputo che il suo ricordo è
controverso in quasi tutti i settori politici della
variegata maggioranza che oggi accorda la fidu-
cia al nuovo governo.E infatti il premier - demo-
cristianamente - evita con cura ogni ri-
chiamo al passato e si tiene prudentemente
alla larga da quella controversia. Per giunta si può
dire che Letta abbia un’età e un cursus honorum
che non lo dispongono più di tanto alla nostalgia, e
che lo inducono semmai a esplorare nuo-
ve frontiere. La sfida che ha davanti verte
sul futuro, sulla nuova Italia e sulla prossima
Europa. E verte sulle cifre dell’economia, che
sono comunque assai diverse da quelle dei tem-
pi della Dc. Dunque, lo si aiuta forse di più to-
gliendo dimezzo la suggestione dei ricordi stori-
ci e ponendo l’accento su quei problemi inediti
che faranno la differenza nei prossimi mesi.

Ma se l’argomento democristiano, a vent’an-
ni e più dalla fine di quella esperienza politica,
risuona ancora così forte nel discorso pubblico
del nostro Paese è segno che dietro quel gioco di
analogie c’è qualcosa di più profondo. Qualcosa
di cui mette conto parlare, e che magari dice
qualcosa anche a chi democristiano non è.
Io la vedo così. La Dc è stata a suo tempo un
grandioso tentativo di unificazione politica del
Paese. Lo è stata almeno nella sua parte miglio-
re, quella che si poneva costantemente il proble-
ma di allargare le basi dello Stato e di coinvolge-
re nelle istituzioni anche i propri avversari. Ver-
rebbe da dire che si sta parlando quasi di un’ov-
vietà. Ma per anni e anni quella ovvietà è stata
irrisa, demonizzata, raccontata in modo carica-
turale. La leggenda del consociativismo è servi-
ta a mettere al bando quelle basilari regole di
convivenza senza di cui un sistema politico non
può reggere.E infatti la cosiddetta «seconda Re-
pubblica» non ha retto.

Ora, è chiaro che il buonsenso di cui sopra
non apparteneva solo ai democristiani. Infatti
quella esigenza di coesione viene quotidiana-
mente avvertita anche in ambienti che la Dc
l’hanno a suo tempo contrastare e combattuta.
Ma l’attitudine a banalizzare le cose ha fatto sì
che quella regola di buonsenso e di coesione ve-
nisse ascritta soprattutto, in modi tipici quasi di
un riflesso condizionato, ai discendenti della
Dc. Su questo, insisto, dovrebbero riflettere tut-
ti quelli che non hanno militato neppure per un
giorno sotto le bandiere dello scudocrociato. E
soprattutto quelli che si sono illusi di buttarne al
vento le ceneri, evocando uno scontro gladiato-
rio di cui solo oggi misuriamo la drammatica
inanità.

Quanto a Letta, egli si trova oggi a capo del
governo nelmomento in cui le fortune dei demo-
cristiani «ufficiali», quelli a denominazione
d’origine controllata, sembrano al lumicino. E
anche questo dovrebbe far riflettere. Perché è il
segno che quei caratteri politici sono impressi
in profondità nell’animo del Paese. Quale che
sia l’angolo visuale da cui lo si osserva.

sabato 27 aprile 2013

Più analiticamente, lo stato dell'arte del confronto tra Google e l'Antitrust europeo

Per avere un quadro completo di qual è lo stato dell'arte della vertenza Google/Antitrust UE vi propongo una sintesi delle contestazioni della commissione e dei rimedi proposti da Mountain View.

BACKGROUND

The Commission opened an investigation against Google in November 2010. In the context of this investigation, the Commission is looking at 17 formal complaints against Google's business practices.

Back in March 2013, the Commission has identified 4 areas of competition concerns related to Google's business practices in search in Europe:

1) Specialised search: the way Google displays links to its own specialised search services in its web search results. Google prominently displays links to its own specialised search services within its web search results and does not inform users of this favourable treatment. Hence, users are not aware of the promotion of Google's offer and competitors' results that are potentially more relevant are less visible and even sometimes not directly visible to users (at the very bottom)

2) Content usage: Google uses without consent content from competing specialised search services in its own offerings. Google thereby benefits from the investments of competitors, sometimes against their explicit will. Google said that the only way not to use the information is for those services to opt-out of all Google services as such!

3) Exclusivity agreements with publishers for the provision of online search advertising on their web sites: these requirements oblige publishers to obtain all or most of their online search advertisements from Google. This means that publishers could display no or limited online search advertisements from Google's competitors, which reduces the choice of online search advertisements they can offer to users of their web sites. Also Google's conduct limits their access to customers.

4) Contractual restrictions on the portability and management of online search advertising campaigns across Google's AdWords and competing platforms: Google contractually restricting the possibility to transfer online search advertising campaigns away from Google's AdWords and to simultaneously manage such campaigns on competing online search advertising platforms.

REMEDIES PROPOSED BY GOOGLE

1) Specialised search
· label promoted links to its own specialised search services so that users can distinguish them from natural web search results,
· clearly separate these promoted links from other web search results by clear graphical features (such as a frame), and
· display links to three rival specialised search services close to its own services, in a place that is clearly visible to users;

2) Content usage
· offer all websites the option to opt-out from the use of all their content in Google’s specialised search services, while ensuring that any opt-out does not unduly affect the ranking of those web sites in Google’s general web search results,
· offer all specialised search web sites that focus on product search or local search the option to mark certain categories of information in such a way that such information is not indexed or used by Google,
· provide newspaper publishers with a mechanism allowing them to control on a web page per web page basis the display of their content in Google News,

3) Exclusivity agreements with publishers
· no longer include in its agreements with publishers any written or unwritten obligations that would require them to source online search advertisements exclusively from Google;

4) Contractual restrictions on the portability and management of online search advertising campaigns
· no longer impose obligations that would prevent advertisers from managing search advertising campaigns across competing advertising platforms.

lunedì 22 aprile 2013

Il ritratto di Alberto Sordi che Oriana Fallaci fece nel '62. Da antologia. Vorrei saper scrivere così


Non avevo mai letto questo ritratto di Alberto Sordi scritto da Oriana Fallaci nel 1962. Ora capisco molto meglio perché Sordi fu e resta l'italiano archetipo degli italiani. È dico: darei molto per saper scrivere come la Fallaci.

L’Europeo, settembre 1962. Riproposto dal Foglio, 22 aprile 2013

C'era stata la faccenda della granatina con la pan-
na, quando non so in quale articolo avevo scritto
che non voleva offrirmi un’altra granatina con la pan-
na, o qualcosa del genere, e malgrado fossero passati
quattro anni non sembrava disposto a perdonarmi:
inutilmente gli spiegavo che lo scopo del mio incontro
era nobile. Non della sua presunta avarizia intendevo
parlare, ma del suo personaggio, di ciò che rappre-
senta in questa Italia prospera e pia che lo ha eletto a
Ripeteva che aveva molto da fare, che stava dop-
piando Mafioso di Alberto Lattuada, che stasera
avrebbe dovuto partire per Salice Terme e: «Mi ha
dato dell’avaro, mi ha dato. Siccome non ho colpe, né
vizi, e non do noia a nessuno, e non appartengo a
quella banda di signorini che si tingono gli occhi, voi
giornalisti vi siete messi in testa di trovarmi un di-
fetto e mi date sempre dell’avaro. E dite che mangio
poco per risparmiare, che fumo le Nazionali per ri-
sparmiare, che bevo aranciate per risparmiare, una
volta avete scritto perfino che risparmiavo l’esca nel
pescare: prima di mettere il verme sull’amo, lo ta-
gliavo a metà e infilavo in tasca la seconda metà. Io
la granatina con la panna gliel’avevo ordinata. Se ne
voleva un’altra doveva dire: ne voglio un’altra».

Intervenne Castone Bettanini, il segretario-consi-
gliere-amministratore che da 12 anni gli fa da ange-
lo custode e in tal compito si annulla talmente da
usare il «noi» come i pontefici e i re: «Ricordiamo be-
nissimo che ci incontrammo alla Casina Valadier a
Roma e le offrimmo la granatina con la panna. Quan-
do lei l’ebbe finita, le chiedemmo se desiderava
qualche altra cosa, lei rispose di no, che la granatina
con la panna era buona e l’aveva gradita. Questo di-
storcere la realtà ci ferisce e ci offende. A ogni modo
siamo oberati di numerosi impegni e l’incontro è im-
possibile». «Ma via, signor Bettanini, ma via. Scher-
zavo e il signor Sordi, che è un raffinato umorista, do-
vrebbe capirlo. Le porgo le scuse, facciamo la pace».
«Accettiamo le scuse ma non possiamo fare la pace.
Fare la pace ci indurrebbe a parlare delle nostre fi-
danzate e noi rifiutiamo questo argomento in quan-
to desideriamo ardentemente sposarci senza offrirci
qualche motivo di beffa. Vero Alberto?». Intervenne
Alberto: «Mi avete scocciato. Tutte le volte che mi
piace una ragazza, mi fate l’articolo con le fotografie
e: Sordi si sposerà entro l’anno, tra dieci giorni, fra
24 ore. Be’? Me le volete far conoscere queste ragaz-
ze? Me le volete far frequentare? Se non le frequen-
to, se non le conosco, come faccio a sposarle? E se ne
sposo una e poi non mi va bene, dove la metto? Di-
vorzio, me la tengo, la ammazzo? Mi fate sempre fret-
ta, mi fate, mi volete a ogni costo dar moglie. La vo-
glio, va bene, la voglio: scruto e analizzo tutte le ra-
gazze che incontro, ma quando mi oriento verso qual-
cuna e chiedo a suo padre il permesso di frequen-
tarla, non mi dovete irritare. Ce ne sono a migliaia
che vorrebbero sposare un attore, che crede?». «Ha
ragione, signor Sordi. Chissà cosa farei, io, per avere
le doti che cerca, farla felice».

E allora lui mi buttò in faccia quegli occhi roton-
di, diffidenti, impauriti: da volpe che teme di cader
nella trappola e allo stesso tempo vuol vedere che
razza di trappola. «Lei è sposata?». «Ecco, io...». «Di-
vorziata?». «Vede, io...». «Vedova?». Esitai, signori, un
lungo momento durante il quale il pericolo di entra-
re a far parte della schiera delle probabili candida-
te a un probabile fidanzamento in vista di un proba-
bile matrimonio con Alberto Sordi mi si presentò in
tutto il suo spaventevole rito: esame di Castone Bet-
tanini, presentazione agli amici importanti, visita al-
le sorelle e alla casa, telefonate insistenti, lettere
dolci, copertina sui settimanali, litigio, poi, inevita-
bile, irrimediabile, irrevocabile, l’abbandono per
bocca di Bettanini che ne dà l’annuncio al babbo e
alla mamma: «Abbiamo letto sui giornali la notizia
del matrimonio di cui dovremmo essere protagonisti
con la vostra figliola e ci duole dirvi che siamo com-
pletamente all’oscuro di tale progetto. Noi nutriamo
per la vostra figliola sentimenti di cordiale simpa-
tia ma non abbiamo mai preso in considerazione l’e-
ventualità di assumere un ruolo più impegnativo».
Non era accaduto press’a poco così con le altre? «Ve-
dova», esclamai. «Chissà perché mi muoiono tutti,
ma tra un po’ mi risposo e spero che il prossimo rie-
sca a campare». «Ah!», disse lui con gioioso sollie-
vo. «Ah! Allora facciamo la pace, andiamo a man-
giare».

E fu così che diventammo amicissimi e scoprii ciò
che cercavo: il gran personaggio nascosto in que-
st’uomo puntiglioso, sospettoso, difficile, che a 42 an-
ni è il più famoso cittadino d’Italia e sia che cerchi
moglie sia che giri un film, la simboleggia con la stes-
sa violenza con cui Gary Cooper o Clark Gable rap-
presentarono l’America, Jean Gabin o Gérard Phili-
pe la Francia, Laurence Olivier o Alec Guinness l’In-
ghilterra. Pochi italiani, in questi anni privi di glo-
ria, sono amati nel nostro Paese come Alberto Sordi.
I suoi film vanno via come il pane, coloro che non li
hanno mai visti costituiscono un numero esiguo e in-
giustificato. Le sue avventure amorose interessano
quanto quelle di un re, è accertato che i giornali ven-
dono più copie quando annunciano un suo fidanza-
mento di quando annunciano un divorzio di Liz Tay-
lor. Il suo volto, che è pesante, infingardo, tutt’altro
che bello, resta simpatico in uguale misura ai pove-
ri e ai ricchi, ai giovani e ai vecchi, ai maschi e alle
femmine, ai comunisti e ai cattolici. La sua ricchez-
za, che è enorme, si regge su proprietà edilizie e ter-
riere e su un gran conto in banca, e sembra che ol-
trepassi di gran lunga il miliardo. Eppure è accetta-
ta senza proteste sia dagli ignoranti sia dagli intel-
lettuali. Gli intellettuali lo paragonano a Molière e
quasi quasi vorrebbero veder la sua testa sui fran-
cobolli. Né ciò accade soltanto perché diverte il tipo che
recita sullo schermo: vigliacchetto e arrangione, pre-
potente con i deboli e ossequioso con i forti, «sempre
pronto a correre in soccorso dei vincitori». Accade
perché piace lui, il suo cinismo, il suo conformismo,
il suo egoismo, la sua ingenuità, la sua semplicità, la
sua mancanza di erudizione, il suo buonsenso pae-
sano.

«Vede», disse quando fummo al ristorante, «molti
mi danno dell’avaro perché, anziché andare nei ni-
ght club, preferisco giocare a scopone con i miei ami-
ci: ma è colpa mia se mi diverto più a giocare a sco-
pone che ad andare nei night club? Altri mi danno
dell’avaro perché non ho l’aereo personale o lo ya-
cht; ma è colpa mia se ad andare sugli aerei piccini
ho paura e dello yacht non so che farmene? Molti in-
vece mi dicono egoista perché, pur ripetendo che
vorrei esser sposato, sono ancora scapolo. Da scapo-
lo, dicono, ho tutti i vantaggi e nessuna responsabi-
lità: le camicie si allineano ben stirate dentro il cas-
setto, i pranzi e le cene sono preparati come piac-
ciono a me; e con le sorelle posso fare il mio como-
do, come non potrei fare con la moglie. Non è vero:
sono un marito nato e questa della famiglia è una
spina nel cuore. L’idea di morire senza aver messo al
mondo un figliolo, anzi molti figlioli, mi tormenta fi-
no allo spasimo: oltretutto a che serve aver guada-
gnato tante ricchezze se poi non le lascio a nessuno?
D’altronde, è colpa mia se sono prudente e la fami-
glia la vedo all’antica, non voglio ripetere gli errori
di tanta gente che mi vedo dattorno? Io odio il ri-
schio: al casinò sarò stato tre volte in tutta la vita e
sempre giocando piccole somme».

E più tardi: «Vede, a me non piace andare a cac-
cia, sebbene sia un gran tiratore.Una volta, a Formia, mi ci portò
un contadino e, al momento di sparare, sparai sui
bussolotti. Detesto l’idea della morte quanto la vista
del sangue. L’idea di tagliarmi un dito mi turba co-
me l’idea di bucarmi il sedere con le iniezioni. La
guerra non la conosco: da soldato suonavo i piatti
nella banda dell’Ottantunesimo reggimento fanteria.
Li suonavo benissimo, con le vibrazioni e tutto, ma
per tutto il tempo che son rimasto dentro l’esercito
non ho visto un fucile, ho solo suonato quei piatti:
dan! Quando la guerra scoppiò, la mia banda musi-
cale fu spedita a Mentone, qui si accorsero che non
avevamo nemmeno un fucile e così ci rispedirono a
Roma. Fui molto contento. L’eroismo, l’audacia sono
per me cose scomode: da seguire tutt’al più alla fi-
nestra per coglierne i lati ridicolmente patetici o tra-
gicamente umoristici. Una secolare pigrizia, un istin-
tivo disgusto per le grandi emozioni mi impediscono
di prendervi parte».

Tutto questo, è evidente, piace agli italiani che du-
rante la guerra non suonavano nemmeno i piatti e
tutt’al più facevano l’antifascismo ai caffè: vale a di-
re la maggioranza. Abbiamo fama di partorire poe-
ti, santi e navigatori, ma la leggenda è eccessiva e
Sordi, nel suo onesto cinismo, è l’unico ad ammet-
terlo: mesi fa, quando la tv inglese lo intervistò nel-
la sua nuova casa, si fece trovare con i calzoncini cor-
ti e un aquilone in mano. Poi dichiarò: «Questa lus-
suosa dimora mi è stata donata dal governo italiano
perché in un Paese in cui tutti sono santi, poeti o na-
vigatori io sono l’unico a non essere un santo né un
poeta né un navigatore; sono solo un comico che a
quest’ora gioca con l’aquilone. L’aquilone mi piace
perché non è uno sport pericoloso». E se ne andò
cantando: «Bella se mi vuoi beeennee, dammi un ba-
cin d’amooreee...».

L'angoscia, l’alienazione, l’incomunicabilità, insom-
ma le eleganti complicazioni che da qualche anno
vanno di moda in Italia, non lo sfiorano neppure per
caso. Ha un sistema nervoso eccezionale che gli con-
sente di dormire quando vuole e quanto vuole: per
dieci minuti, se ha deciso di dormire dieci minuti, per
nove ore se ha deciso di dormirne nove. Non ha mai
preso una pillola e la sua salute è di ferro: anche per-
ché mangia poco, beve meno, e non fuma quasi nien-
te. Lalienazione è per lui soltanto una parola ridico-
la e un po’ misteriosa. Lincomunicabilità non esiste
nel suo vocabolario nemmeno quando perde o pian-
ta una donna: «Evidentemente ciò accade perché ci
siamo comunicati benissimo che non eravamo fatti
l’uno per l’altra. A proposito di comunicabilità, le pia-
ce l’America? A me, tanto. Soprattutto New York. Ah,
quella folla, quei grattacieli: come ci comunico bene.
E poi gli americani sono così imprevedibili. Il luglio
scorso, quand’ero a New York per girare certe scene
di Mafioso, abitavo in un albergo di fronte al Central
Park e sa cosa vedevo tutte le sere nel Central Park?
Un omino che, dopo aver dato da mangiare agli scoiat-
toli, stendeva i giornali sul prato, si adagiava sopra i
giornali, si copriva con altri giornali, e lì dormiva fi-
no al mattino. Una sera mi prese la voglia di andare
a lasciargli una bottiglia di latte, due o tre stecche di
cioccolata, qualche pacchetto di sigarette, e questo bi-
glietto: “Caro americano, tu non mi conosci ma io sì.
Sei uno degli americani che liberarono Roma e ci re-
galavano il latte, le sigarette e la cioccolata. A quel
tempo tu eri ricco e io povero. Ora invece tu sei pove-
ro e io sono ricco: perciò ti rendo il latte, le sigarette,
e la cioccolata. Tuo Alberto Sordi”». «E lo fece?», gli
chiesi. «Oh no! Chissà cosa sarebbe successo».

Dice Lattuada: «È un uomo che io non capisco.
Quando mi chiedono di lui posso dir solo questo: è
disciplinato come un soldato ed è un attore eccezio-
nale perché non appartiene a nessuna delle catego-
rie di attori che noi registi siamo usi a tollerare; lui
è creativo, anziché assimilare passivamente ciò che
gli chiedi, te lo restituisce interpretato e arricchito.
Quanto alla sua personalità non professionale ho ca-
pito una cosa: odia il rischio come i funghi, non mon-
terebbe a cavallo di un asinello: è il buonsenso fat-
to persona. Basta veder la sua casa».

La casa del buonsenso, voglio dire di Alberto Sor-
di, sorge dinanzi alle Terme i Caracalla, in uno dei punti più
eleganti di Roma. È una grande villa color mattone,
a tre piani, circondata da un parco pieno di fontane,
vialetti, terrazze, verande, dépendances e una pisci-
na a forma di chitarra dove nessuno o quasi nessu-
no fa il bagno. Apparteneva al segretario di Benito
Mussolini, Alessandro Chiavolini, e Sordi la comprò
per non si sa quale cifra, la rimodernò spendendovi
non meno di 100 milioni. Contiene infatti una venti-
na di stanze a mantenere le quali non bastano sei
persone di servizio, un elettricista e un idraulico. Al-
tri tre servitori tuttofare vi accudiscono a ore, vale
a dire dalla mattina al pomeriggio, senza contare le
due sorelle di Sordi, Aurelia e Savina che, nubili e
cinquantenni, ne curano l’amministrazione. Aurelia
e Savina sono del resto, con Alberto, le sole abitan-
ti della villa: Bettanini abita per conto suo con la mo-
glie; e Pino, il fratello maggiore, vive con la famiglia.

Ciò induce al sospetto che si tratti davvero di una ca-
sa eccezionale, e spiega perché nessun giornalista e
nessun fotografo (categoria che Sordi considera co-
me la più diretta collaboratrice del fisco) vi ha mai
messo piede. Quando io chiesi di farmici entrare,
eravamo alla frutta, Bettanini rispose con un diplo-
matico no: «Ci dispiace ma non possiamo esaudire
questo suo desiderio poiché le nostre sorelle sono
tornate appena ieri dal mare e la nostra casa è in di-
sordine». Fu necessario arrivare al secondo caffè,
darci addirittura del tu, perché Sordi tornasse sulla
decisione dell’angelo custode: visto che alle 11.30 lui
prendeva il treno che lo avrebbe portato a Milano, di
lì a Salice Terme, visto che io partivo alla medesi-
ma ora, tanto valeva recarsi insieme alla stazione.
E visto che ci recavamo insieme alla stazione, tan-
to valeva muoversi insieme da casa sua. Un quarto
alle dieci Bettanini sarebbe passato a prelevarmi in
albergo. «Ok?». Ok.

Ero un poco eccitata, lo ammetto. Pur avendogli
detto tante menzogne sul mio stato civile, aver ri-
nunciato perciò a ogni possibilità di diventar la sua
sposa, non riuscivo a sottovalutare, ecco, l’importan-
za di una visita che, bene o male, era la stessa com-
piuta dalle sue fidanzate quando, se è vero ciò che es-
se affermano ed egli smentisce, lui le spingeva con
dolcezza attraverso le stanze e diceva: «Ecco la casa
dove cresceranno i nostri bambini». Avrei visto le
suocere, pardon, le cognate? Avrebbero esse credu-
to alla storia delle mie vedovanze funeste? E come mi
avrebbero accolto? Bettanini, al volante, taceva: sem-
pre più perplesso e meno entusiasta della familiarità
esplosa tra me e l’uomo sul quale avevo diffuso l’in-
fame storiella della granatina con la panna. Poi si
fermò dinanzi a un cancello, mi fece inoltrare lungo
un grazioso vialetto, passare attraverso un elegantis-
simo ingresso in un grande salone da cui partiva una
scala di marmo, e quasi intuisse il mio turbamento mi
dette da bere. Le sorelle non c’erano; grazie a Dio,
erano andate al cinematografo. C’era invece il fra-
tello che è placido, tondo, cinquantenne, e se ne fre-
ga di chi va e di chi viene: lui viene ogni tanto «a da-
re una mano» e questa sera si trovava lì dentro esclu-
sivamente perché veniva a Salice Terme, dove ha cer-
ti affari. Io chi ero? Una fidanzata di Alberto? Co-
munque, ecco Alberto, che scendeva con un sorriso
orgoglioso sulla bocca a salvadanaio e diceva: «Io mi
chiedo se questa è la casa di un uomo che non paga
una granatina con la panna», e ora andava mostran-
do la collezione di uccelli in porcellana lungo la sca-
la di marmo, gli affreschi settecenteschi trasportati
da chissà quale palazzo, le poltrone e i divani acqui-
stati per iperboliche cifre dai più esosi antiquari d’I-
talia e di Francia, le maioliche rare, le terrecotte da
museo, gli argenti di trecent’anni. Era la sua grande
rivincita di romano nato in Trastevere, dentro un ca-
samento con i muri scrostati, le inquiline linguac-
ciute sul pianerottolo, i bambini sudici nel cortile, un
padre insegnante di basso tuba a chissà quale sti-
pendio mensile e una mamma che lava i piatti di-
cendo: «Vorrei proprio sapere come se la caverà quel
ragazzo da grande, non ha voglia di far nulla».

La grande rivincita del romano nato in Trasteve-
re comprendeva anche uno studio degno di un pre-
sidente della Repubblica con la biblioteca di acero e cuoio
e i libri del defunto critico e giornalista Ermanno
Contini: 3mila volumi ricomprati per giusto prezzo
dagli eredi e che solo a sfogliarli basterebbero a fa-
re di chi li possiede un uomo coltissimo. Comprende-
va una camera da letto con un letto del Seicento e un
cassettone con lo stemma dei Grimaldi, un guardaro-
ba ampio come un magazzino della Rinascente: cen-
tinaia di giacche tutte uguali e in fila come fantasmi,
una toeletta con la poltrona da barbiere, allungabi-
le, e un gran rispetto per la ricchezza. «Quando ero
povero, non facevo mai le pernacchie ai ricchi. I ric-
chi e gli importanti li ho sempre guardati con defe-
renza e simpatia». Comprendeva una cappella che
presto si riempirà con una collezione di arte sacra
moderna, «qualcosina di Picasso, qualcosina di Matis-
se, qualcosina di Chagall», e dove ogni domenica mat-
tina un prete dice la messa privata. «Naturalmente
faccio anche la comunione e questa è una gran bella
comodità: negli ultimi tempi non potevo entrare in
chiesa senza che i fedeli venissero a domandarmi
l’autografo e se non era l’autografo era un via vai, un
bisbigliare ecco Sordi, guarda Sordi; ciò mi distrae-
va dalle preghiere».

Comprendeva infine una palestra: con il punching
ball per la boxe, la bicicletta fissa per le gambe, il ca-
vallo elettrico per andare al trotto e al galoppo. «Sì,
sono molto sportivo, mi aiuta a non ingrassare». E mai
sportivo fu tanto coerente al suo personaggio: egli è
l’unico italiano, scommetto, che riesce a fare la boxe
senza prendere pugni, ad andare in bicicletta senza
cascare, a cavallo senza ruzzolare.

D’altra parte, perché non assolverlo? «Io credo»,
usa dire, «che ogni uomo abbia la sua realtà. Meschi-
na o splendida che sia, egli deve accettarla e co-
struirci sopra senza rimpianti». E la sua realtà è
quella di un piccolo borghese dalla prudenza grani-
tica, l’audacia pressoché inesistente; ecco: allo stes-
so modo in cui evita di andare alla guerra e a caccia,
sebbene sappia sparare ottimamente con il fucile,
evita di fare a pugni con un uomo vivo e di cavalca-
re su un cavallo vivo. Nessuno lo ha mai visto accet-
tare una rissa, un vero litigio: questa è la sua forza e
il suo limite. Ma un particolare che nessuno imma-
gina lo riscatta dalla minaccia di tanto squallore: la
tristezza della sua solitudine. I suoi veri amici sono
pochi: Rodolfo Sonego, lo sceneggiatore che gli scri-
ve gli sketch, Mario Monicelli, Mario Bonnard, Dino
De Laurentiis, al quale è legato con ferreo contrat-
to. Dai De Laurentiis va abbastanza spesso: gli pia-
ce stare con Silvana Mangano e con i bambini, che
lo chiamano zio.

Gli altri li vede a casa sua per qualche serale par-
tita a scopone, o proiezione di film: accanto alla pa-
lestra c’è un grande teatro che può servire in ugual
modo a darvi recite o a proiettarvi film. Non di rado,
però, i suoi amici lamentano problemi famigliari, di
lavoro, e allora non c’è altro che lui dentro il grande
teatro: così siede solo solo nel buio, a riguardare sul-
lo schermo se stesso, uno dei cento film che custodi-
sce in cabine refrigerate. E la malinconia che questo
accada anche domani, e dopodomani, e dopodomani
ancora, per mesi, per anni, ha il valore di una reden-
zione.

«Alberto Sordi», chiesi quando sostammo dentro il
teatro, «hai mai pianto? Piangi?». Lui rispose di no,
l’ultima volta in cui aveva pianto aveva tre anni; poi,
aggiunse che via, bisognava andare alla stazione, era
tardi. Il giorno dopo eravamo tutti a Salice Terme, do-
ve gli avrebbero dato, come premio per il migliore at-
tore comico dell’anno, una automobile. L’albergo do-
ve eravamo era circondato da uno splendido parco
pieno di aiuole, porticati, gazebo, un decadente ro-
manticismo. Arrivando notò che gli ricordava L’anno
scorso a Marienbad (film del 1961 di Alain Resnais, con
dialoghi di Alain Robbe-Grillet, ndr) e domandò a chi
gli stava dintorno se lo avevano visto. Nessuno lo ave-
va visto. Però Il vigile lo avevano visto.

Lui sussurrò appena: «Davvero». E invece di veder-
lo ridere, contento, mi sembrò di vedergli aggrottare
la fronte, tirar fuori un rassegnato sospiro. Qualcuno
disse che, malgrado i suoi italiani difetti, le sue italia-
ne virtù, egli resta uno dei pochi degno d’essere pre-
so sul serio.

Oriana Fallaci

mercoledì 17 aprile 2013

Il mio candidato per il Quirinale fa già il presidente. In Estonia.

Commento sulle prime pagine dei giornali locali del Gruppo Espresso (mattino di Padova, Gazzetta di Mantova etc.) del 18 aprile 2013

di CLUDIO GIUA

Ho un candidato imbattibile per il Quirinale. Ha un curriculum che nessun altro può vantare. Sentite: giovane rispetto ai nostri standard presidenziali (60 anni), è cresciuto negli Stati Uniti, s'è laureato alla Columbia, ha un master in psicologia (verrebbe tanto utile, sul Colle), parla inglese, estone, tedesco e latino, vanta esperienze come direttore del Vancouver Arts Center, docente di letteratura, giornalista di Radio Free Europe, ambasciatore a Washington, ministro degli esteri e membro del parlamento europeo. E ha una grande passione per l'innovazione. Purtroppo, Toomas Hendrik Ilves è giá presidente di una repubblica parlamentare, l'Estonia, che ha un ordinamento che somiglia all'italiano: una camera con 101 membri che esprime il governo, viene rinnovata proporzionalmente ogni quattro anni ed elegge ogni cinque il capo dello Stato. Insomma, a parte l'unicameralismo, siamo lì.

La differenza è che Ilves, eletto da una coalizione di centrodestra, ha le idee chiare, le ha potute mettere in pratica ed è il promotore del cambiamento di passo dell'Estonia negli ultimi dei suoi 22 anni di indipendenza post-sovietica. Il governatore della banca centrale estone, Ardo Hansson, ha detto giorni fa che i paesi baltici, tra i primi ad essere stati messi in ginocchio dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009, si sono ormai rialzati: "Merito - ha spiegato - dei consolidamenti fiscali e delle profonde riforme strutturali". Ma anche della grande libertà: secondo il Press Freedom Index 2012, qui la stampa non ha alcun condizionamento.

Uno sviluppo, quello estone, dovuto poi all'apertura verso l'esterno e all'alta qualità dell'istruzione. Le aziende estoni attraggono legioni di ingegneri, matematici, fisici, informatici dall'Europa e dall'Asia. Nello stesso tempo, sono decine di migliaia gli estoni che - pur abitando in patria - lavorano all'estero, in particolare in Finlandia e Svezia, in posizioni che richiedono specializzazioni e competenze. Sono loro i tecno-pendolari che affollano i traghetti e gli aliscafi che attraversano il Baltico senza sosta. Oltre la metà delle donne estoni tra i 30 e i 34 anni ha una laurea, obiettivo che invece ha raggiunto meno di un terzo degli uomini della stessa fascia d'età. In nessun altro paese dell'Unione Europea accade qualcosa di simile.

Il fenomeno Estonia è tangibile nel clima favorevole all'innovazione a Tallinn e dintorni. È il paese più cablato delle Ue. Secondo il Wall Street Journal, "produce" più start-up per abitante di qualsiasi altro stato in Europa. Qui è nata Skype, la principale compagnia telefonica globale VoIP, ossia via web. Comprata da eBay e poi rivenduta a Microsoft, mantiene ancora un centro di sviluppo con oltre 400 addetti ben retribuiti. Qui hanno sedi e forti investimenti 3M, Alstom, Fujitsu, Procter & Gamble, Galvex, Hansapank.

Dietro questo miracolo, secondo molti osservatori, c'è il presidente Ilves con il suo pragmatismo e la sua voglia di cambiamento. È velleitario pensare che un politico così possa, prima o poi, capitare anche a noi? Nell'attesa, perché non attrezzarci in una delle molte Italie che assomigliano all'Estonia, o potrebbero assomigliarle? Il paese di Ilves ha 1 milione 294mila abitanti, che malcontati sono 70mila più dei cittadini del Friuli-Venezia Giulia, 250mila più del Trentino-Alto Adige, 340 mila meno della Sardegna. Tutte regioni autonome e di confine - come l'Estonia - che sono, non incidentalmente, le aree più avanzate del Nord e del Sud italiani. La porosità culturale e demografica, la dimensione territoriale ben controllabile da chi governa, il notevole tasso di autodeterminazione fiscale ed economica dunque contano, eccome, per il successo delle politiche sociali e imprenditoriali. Ilves ha sfruttato appieno queste opportunità. Anche noi, in molte situazioni, potremmo fare altrettanto. E se non ci sarà concesso un presidente della Repubblica "alla Ilves", almeno proviamoci con i governatori delle regioni e i sindaci delle grandi cittá. Cominciamo a pensarci fin da ora.
Twitter @claudiogiua


sabato 13 aprile 2013

Francesco Merlo mostra impietoso le scelte sbagliate di Antonio Ingroia: che replica e, ovviamente, fa una pessima figura

L'EDITORIALE DI FRANCESCO SU REPUBBLICA DEL 12 APRILE , MOLTO CRITICO NEI CONFRONTI DI ANTONIO INGROIA

di Francesco Merlo

Sembra il giudice che Silvio Berlusconi si inventa per screditare tutti i giudici. E spiace moltissimo sentire gli sghignazzi volgari della destra – “Vai a lavorare” era il titolo del Giornale di ieri – non perché Antonio Ingroia non li abbia colposamente attratti, ma perché l’Antimafia non merita il danno epocale che le sta procurando Ingroia. Anche come perdente, infatti, questo giudice siciliano si sta dimostrando terribilmente inadeguato quale che sia l’esito finale della sua triste parabola di autodistruzione: la politica, la magistratura, la direzione dell’Equitalia siciliana e non come lui ingordamente avrebbe voluto, tutte e tre le cose.

E cominciamo col dire che sembra un personaggio di “Benvenuti al Nord” quando disprezza la sede giudiziaria di Aosta, assegnatagli dal Csm perché è la sola dove lui non si era presentato alle elezioni e dunque l’unica disponibile per regolamento: «Ci vado volentieri: tre o quattro giorni, ma in villeggiatura, a passeggiare, non a perdere tempo, a scaldare la sedia ». È strano che i magistrati di Aosta, trattati come pensionati alle terme di Montecatini, non abbiano chiesto al Csm di tutelare la loro reputazione come ha fatto, per molto meno, il procuratore Giancarlo Caselli dopo le dichiarazioni in tv del presidente del Senato Piero Grasso. L’idea che ad Aosta i giudici si misurino con l’ozio muscolare è un pregiudizio “enantiodromico” direbbero gli psicoanalisti, che si rovescia cioè nel suo opposto: i giudici aostani si rinvigoriscono con atletiche e salutari passeggiate al freddo come i pm di Palermo, indolenti e sciroccati, si dissipano in sbadigli al sole e lunghissime pennichelle nel meriggio. È – di nuovo! – roba da (inconsapevole) satira antropologica, terroni-polentoni, caldo-freddo, insomma alimento per Crozza, che già in campagna elettorale, aveva felicemente fatto di Ingroia una maschera della commedia all’italiana.

Questo pubblico ministero che a Palermo aveva condotto e ancora aveva in mano inchieste importantissime e delicatissime, tra cui la famosa trattativa dello Stato con la mafia, le lasciò tutte contro ogni logica investigativa e giudiziaria, prima per un (brevissimo) incarico internazionale in Guatemala del quale si ricordano solo le interviste (cult) sotto le palme. Poi ha fondato un movimento politico con lo scopo dichiarato di fare la rivoluzione e si è candidato al Parlamento e alla presidenza del Consiglio. Come si sa, Ingroia non è stato eletto e la sua “Rivoluzione civile” non è rappresentata né alla Camera né al Senato.

Ma il punto non è questo, perché si può vincere anche perdendo. Anzi, la storia d’Italia è piena di sconfitti di successo al punto che l’aristocrazia dei perdenti è forse la sola nobiltà prodotta dalla classe dirigente e sto parlando innanzitutto di Falcone e Borsellino, ai quali non solo Ingroia apertamente e incongruamente si ispira. Ma anche, più modestamente, sto parlando dei vari Segni, Martinazzoli, Occhetto e poi Veltroni… che hanno “rivoluzionato civilmente” per dirla con Ingroia il sistema e i partiti, e ovviamente parlo di Pannella e Bonino, che hanno cambiato la civiltà dei diritti e sono sempre stati sotto lo zero virgola… Insomma questi perdenti sono, per merito e grandezza personali, l’unica realtà blasonata, visto che l’Italia vincente, pur con qualche ragguardevole eccezione, non è riuscita a produrre vere leadership e ora neppure un governo legittimato e sicuro.

Invece, anche come perdente Ingroia sembra disegnato dalla penna del Sallusti di turno che sberleffa in lui l’intera magistratura. A Berlusconi non pare vero che gli venga consegnato il fiero pasto e ogni tanto solleva la bocca come il conte Ugolino per proporre le solite riforme contro l’indipendenza della magistratura, la gerarchizzazione degli uffici, l’elettività del pubblico ministero, la separazione delle carriere, il doppio consiglio superiore. Il protagonismo e la vanità di Ingroia diventano l’alibi dei suoi tentati delitti contro la giustizia. E meno male che il Csm se n’è accorto e se ne sono accorti anche i colleghi più amici di Ingroia, che è la punta estrema di una grande confusione di ruoli con il giudice che diventa, nel bene e nel male, il politico, lo storiografo, il sociologo, il criminologo e ora persino l’esattore.

Come si sa, il governatore della Regione Sicilia Rosario Crocetta ha infatti offerto ad Ingroia il posto di direttore dell’Equitalia siciliana. Crocetta non ha dei buoni motivi, se non di immagine, per mettere a capo della “Riscossione spa” un magistrato antimafia, ma questo è, dopo Zichichi e Battiato, un peccato veniale e al tempo stesso una conferma che l’idea forte della sua Sicilia e della sua politica rimane l’isola dei famosi. Si capisce invece che Ingroia, in un momento molto difficile per la sua carriera, possa accettare un incarico che se non è minore è certamente lontano dalla funzione giudiziaria. Ingroia non vuole lasciare Palermo e gli sembra di poter continuare la sua battaglia contro la mafia attraverso il diritto tributario. Ma vuole fare il superesattore delle tasse senza lasciare né la magistratura né la leadership del movimento politico che ha fondato e nel quale ancora crede.

È evidente che la confusione dei tre ruoli ne danneggia due e ne rafforza uno. E vediamo perché. La magistratura viene danneggiata perché è equiparata ad un’esattoria. Non si giustificano più quegli studi né quel concorso, né i disagi e le mille rinunzie di un procuratore antimafia, e nemmeno si giustificano le sue competenze specifiche che non sono quelle della Guardia di Finanza soprattutto in una sede come Palermo. Ma ne esce danneggiata anche la funzione dell’esattore che comporta a sua volta un sapere specializzato che qui viene avvilito. I lavori difficili e complicati, anche quando hanno punti di contatto, non sono intercambiabili. Le verifiche fiscali, il controllo dei libri e delle strutture contabili esigono una competenza tecnica di ragioneria che il magistrato in genere non ha. Inoltre il funzionario di Equitalia non può essere un pubblico ministero che agisce al coperto, neppure in Sicilia, a meno di non credere al preconcetto, che non è diffuso neppure in Val d’Aosta, che i siciliani sono tutti mafiosi che non pagano le tasse. Il cittadino contribuente non dovrebbe avere l’impressione di essere inquisito e vessato. Alla fine il solo ruolo che potrebbe uscire rafforzato è dunque quello di leader di “Rivoluzione civile” che continuerebbe ad esercitare la sua legittima ricerca di consenso ma da una posizione di potere, molto mediatica, molto politica.

Dunque Ingroia ha chiesto al Csm il “fuori ruolo”, che è sospensione dello stipendio ma non della carriera, per occupare quel posto di esattore che in passato – ha detto – era stato svolto da «mafiosi o da corrotti dalla mafia» e che lui però da procuratore non aveva mai inquisito. Oggi, al di là della forte simbologia che porterebbe Ingroia, l’esattoria siciliana, sia nella fase dell’accertamento sia nel momento esecutivo, ha bisogno non dico di ragionieri per bene ma, più propriamente, di probi commercialisti, finanzieri pazienti, tecnici specializzati, efficienti e specchiati ufficiali giudiziari. Ebbene, applicando il regolamento e forse anche il buon senso, il Csm ha bocciato la richiesta di Ingroia e lo ha assegnato alla procura di Aosta. E Ingroia ora si mostra offeso, lascia intendere di avere subito un vendetta, una ritorsione «politica», «disprezzano il mio lavoro», la decisione è «punitiva, ma per ora non lascio la toga… perché significherebbe che chi ha indagato sulle collusioni tra Stato e mafia non può restare in magistratura ». Ma, per la verità, è avvenuto esattamente il contrario: Ingroia, semmai, a un certo punto della sua carriera ha usato le indagini antimafia per uscire dalla magistratura e non per restarci.
Fa dunque rabbia questo strepito capriccioso in chi, al contrario di quel che dice, quando faceva il magistrato è stato ammirato, incoraggiato, sostenuto e fortificato nelle indagini e nelle polemiche. Chissà che opinione si stanno facendo i poliziotti che Ingroia ha avuto al fianco, gli altri magistrati (non solo di Aosta), gli studenti di Giurisprudenza cresciuti nel mito di Falcone e Borsellino, gli uditori, i ragazzi delle scorte che con lui hanno affrontato gli sguardi torvi e beffardi dei nemici veri, non degli avversari politici di oggi ma dei cani con le pistole di ieri. Cosa è successo all’uomo che i mafiosi ha combattuto davvero? Fa rabbia che in Italia non ci si possa permettere il lusso di una bella biografia che non finisca in canovaccio grottesco.


LA RISPOSTA DI INGROIA, SEMPRE SU REPUBBLICA, IL 13 APRILE

di Antonio Ingroia

Caro direttore, se avessi voglia di scherzare, potrei
dire che da giudice clemente, di fronte al pezzo di
Francesco Merlo, forse rileverei il difetto di dolo.Ma,
avendo fatto il pm per venticinque anni, non posso
dimenticare il principio“ignorantia legis non excusat” e
che a un giornalista non si può scusare neppure
l'ignoranza dei fatti e delle persone. Però, di fronte ad
un articolo così c'è poco da scherzare, e quindi trala-
scio il tono di dileggio che credo di non meritarmi e mi
limito a ristabilire la verità dei fatti.

Merlo mi definisce «perdente» e parla di «triste pa-
rabola di autodistruzione». Se si riferisce all'esito elet-
torale, la sconfitta è innegabile, anche se non si può
ignorare che è stata frutto anche delle difficili, quasi
proibitive, condizioni esterne in cui è maturata, al-
leanze mancate comprese, e della peggior legge elet-
torale immaginabile che ha portato in Parlamento
drappelli di eletti in liste che hanno riportato centi-
naia di migliaia di voti in meno di Rivoluzione civile.
Se si riferisce ad altro, vorrei ricordargli che tutti i pro-
cessi e le indagini di cui mi sono occupato hanno avu-
to importanti conferme processuali. Dalla condanna
definitiva di Contrada, alle varie condanne di Dell'U-
tri fino al recente rinvio a giudizio di tutti gli imputati
del processo della “trattativa Stato-mafia”. Quindi,
non so di quale parabola parli. La mia ormai unga car-
riera di magistrato antimafia, con tutti gli annessi e
connessi (vita blindata ventennale, esposizione per-
manente, attacchi delegittimanti, etc.) forse merite-
rebbe maggiore rispetto, ed è amaro che debba esse-
re io a rammentarlo.

Quanto al trasferimento ad Aosta, nessuna iattan-
za, ma il richiamo a principi di buona amministrazio-
ne e di ragionevolezza istituzionale nell'uso delle ri-
sorse umane a disposizione. Ho il massimo rispetto
del lavoro e della professionalità dei colleghi di Aosta,
ma la prima decisione del Csm era di mandarmi come
giudice in soprannumero e per questo ho parlato iro-
nicamente di “scaldare la sedia”. Oggi il Csm cambia
idea e, facendo un'eccezione alla regola, dice che pos-
so fare il pm, ma solo ad Aosta. Sicché ho replicato che,
fatta un'eccezione, forse si poteva fare anche quella di
mandarmi in una procura distrettuale antimafia o al-
la procura nazionale antimafia.

Ho anche prospettato l'alternativa, offertami dal
presidente Crocetta, di mettere a frutto la mia espe-
rienza per mettere ordine in un ente in passato nelle
mani della “mafia in guanti gialli” ed oggi sospettato
di opacità e gestioni illecite, al punto da avere indotto
il presidente della Regione a presentare denuncia alla
procura di Palermo. Credevo (e credo) fosse un inca-
rico più in linea con la mia esperienza professionale.
Ulteriore rettifica. Non ho mai lasciato un'indagine
incompiuta, neppure l'indagine sulla “trattativa Sta-
to-mafia”. Proprio per portarla sino in fondo ho ac-
cettato la proposta di incarico dell'Onu in Guatemala
solo dopo l'estate 2012, quindi non prima di aver fir-
mato l'atto conclusivo dell'indagine, la richiesta di
rinvio a giudizio poi integralmente accolta dal gup per
vviare un processo che sarà seguito dal validissimo
pool di magistrati che ho coordinato fino a qualche
mese fa.

Che l'incarico in Guatemala sia stato breve me ne
dolgo, ma non ha impressionato per nulla l'organi-
smo delle Nazioni Unite dove il rapido avvicenda-
mento dei funzionari è la regola, tanto che il mio pre-
decessore argentino vi era rimasto solo un paio di me-
si in più di me.

Quanto alla politica, è ovvio che un mio rientro in
magistratura non potrebbe non determinare un mio
allontanamento, ma il movimento da me fondato
continuerà ad andare avanti sulle sue gambe che nel
frattempo si sta dando con un radicamento territoria-
le ed un suo coordinamento nazionale.

Infine, una domanda. A che devo tanta malevolen-
za? Perché accusarmi di avere “usato” le mie indagini
per chissà cosa, quando i negativi risultati elettorali
evidenziano semmai che non incarno il modello di
quei tanti “calcolatori di carriera” che affollano il Pae-
se, magistratura compresa? Ho sbagliato in alcune
mie scelte, come tutti non sono infallibile. Ma l'ho fat-
to in buona fede, nella convinzione che servisse una
politica non più nemica della verità e della giustizia,
ma alleata della magistratura nel contrasto alle mafie
e al malaffare, e nella ricerca delle troppe verità nega-
te della nostra storia. Avendo commesso errori il dirit-
to di critica è legittimo, mentre il rispetto delle perso-
ne e delle loro storie è doveroso e la crocifissione do-
vrebbe essere evitata.

LA CONTROREPLICA DI MERLO, SEMPRE IL 13 APRILE

Caro Ingroia, ricostruisca i fatti come le pare, ma evi-
ti di aggiustare le mie parole per la sua comodità pole-
mica. Nel mio articolo non c’erano né il dileggio né la
malevolenza né il mancato riconoscimento della sua
biografia antimafia. C’era invece l’esplicito e dolente
rammarico che una storia come la sua sia finita nel ca-
novaccio grottesco della politica politicante. Anche
questa lettera, con le precisazioni da tribuna politica,
suona triste alle mie orecchie. Infine: io rispetto la sua
buona fede, lei impari a rispettare la mia. (f.m.)

giovedì 11 aprile 2013

La differenza tra la trasparenza predicata e quella praticata

sul Piccolo di Trieste, il mattino di Padova, la Gazzetta di Mantova e altri giornali della Finegil/Gruppo Espresso
del 12 aprile 2013


di CLAUDIO GIUA

Tra il 10 e l'11 aprile la parola "trasparenza" viene usata in dodici articoli e commenti di Repubblica e in sette casi è collegata all'attività del Movimento 5 Stelle. Sul Corriere della Sera, dei cinque pezzi dove compare la stessa parola, uno parla dei grillini, gli altri di lampade, banche eccetera. Sul Piccolo di Trieste il rapporto è due su nove. Tanto. E' che la "trasparenza" è ormai il grimaldello o addirittura il piede di porco con cui scardinare il portone blindato delle stanze dei poteri, a ogni livello. Così come lo furono in passato parole come "partecipazione" (tanto in voga che, nel 1974, fu chiesto agli allora maturandi di spiegarne l'essenza), "autonomia" (dalla socialista all'operaia, fino a quella padana di Bossi), "rigore" (che ha una lunga vita, prima di stenti con La Malfa, poi rinvigorita da economisti e politici stimati, Amato, Ciampi, Prodi, Monti).

Con "trasparenza" viene riassunto il concetto di "casa di vetro". M'è toccato cercare negli archivi della memoria e del web per risalire a chi usò per primo questa metafora. Fu Plutarco, filosofo e storico vissuto in Grecia tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, cittadino romano e autore delle celeberrime "Vite parallele": raccontando del tribuno della plebe Livio Druso, scrisse che "a un artigiano che gli proponeva per soli cinque talenti di orientare in maniera diversa le aperture esterne della sua casa, attraverso le quali il vicinato vedeva quanto accadeva all'interno" rispose "ti darò dieci talenti se renderai la mia casa tutta trasparente in modo che i cittadini possano vedere in che modo vivo".

Nel nostro paese le case di vetro sono poche. Così, su due piedi, non ne saprei indicare una. Non il Parlamento, la Chiesa, le associazioni, la Rai, le aziende pubbliche e private e neppure le banche, le università, i comuni con 26 abitanti, che non hanno pareti trasparenti o almeno le aperture che l'artigiano di Livio Druso avrebbe murato per cinque talenti. Le nostre istituzioni e organizzazioni sono esempi di trasparenza negata, sembrano esser state disegnate da architetti di labirinti al fine di creare lunghi tortuosi percorsi disseminati di misteri irrisolvibili. Dunque hanno ragione Grillo e i grillini - ma non sono i soli - quando reclamano la massima trasparenza delle istituzioni. Per dirla meglio: hanno ragione quanti, dando il voto a Grillo e ai grillini, si sono dichiarati contro l'opacità della politica, gli accordi mai dichiarati, le trame di palazzo, la difesa degli indifendibili e l'abbandono di chi dovrebbe essere difeso.

Ma per essere credibili i Cavalieri Bianchi della Trasparenza hanno il dovere di praticarla in qualsiasi atto, ovunque e sempre. Non è così. Gli onorevoli cittadini di M5S odiano i giornalisti fascisticamente definiti pennivendoli, non rispondono alle loro domande e ne annunciano allegramente l'estinzione; disertano i talk show ma praticano monologhi senza interruzioni (ricordate Petrolini-Nerone che declamava: "Er popolo quando che s'abbitua a di' che sei bbravo, pure che nun fai niente, sei sempre bbravo"?) riproposti a rullo dalle tv; sbarrano porte e finestre non appena soffi un refolo di dissenso; chiedono - per trasparenza nei costi? - di abolire i Treni della Memoria che portano i ragazzi delle scuole a vedere come i nazisti sterminavano ebrei, zingari, preti, comunisti e omosessuali. Soprattutto, tutti insieme ma su precisa indicazione di entità immanenti, in consessi chiusi a chiunque decidono di non decidere alcunchè.

Al confronto, i vecchi partiti sono esempi di trasparenza, pur se primi responsabili dei guai in cui ci troviamo e dunque giustamente sbertuccati da Grillo & Casaleggio. In chiaro: alle denunce del M5S, che hanno il merito di aver dato la scossa a politici incapaci di raccogliere quanto il paese chiedeva e chiede, stanno seguendo comportamenti a mio giudizio contraddittori e irresponsabili. D'altra parte, Niccolò Machiavelli scriveva cinque secoli fa: "Il popolo molte volte desidera la rovina sua ingannato da una falsa specie di bene; e come le grandi speranze e gagliarde promesse facilmente lo muovono".

Twitter @claudiogiua

martedì 9 aprile 2013

L'ambiguo comunicato di M5S sul pacco bomba alla Stampa

La lettura del comunicato integrale del consigliere regionale piemontese Davide Bono sul pacco-bomba alla Stampa dice della non-ideologia del Movimento 5 Stelle più di qualsiasi analisi psico-politica. Eccolo:

"La notizia della consegna di un pacco bomba, capace di esplodere, presso la redazione della Stampa ci preoccupa.

Com'è noto, l'M5S critica la posizione di asservimento al potere precostituito di gran parte dei media tradizionali, per cui abbiamo nel nostro programma il taglio dei finanziamenti pubblici all'editoria, che forse provocherà la chiusura di diversi giornali.

Condanniamo però senza se e senza ma qualunque tipo di violenza, perpetrato nei confronti di cittadini e lavoratori. La miglior arma è infatti, come ci ha insegnato negli anni Grillo, l'ironia e, se non bastasse, la querela.

Solidarietà dunque ai tanti giornalisti che dovranno recarsi al lavoro con la preoccupazione non solo e non tanto di mantenere il proprio posto di lavoro, ma anche di rischiare la propria vita".

Fin qui il comunicato, che propone un ambiguo e stupido parallelismo tra chi recapita un pacco bomba e chi "fa violenza" in quanto giornalista: che pertanto è giusto perda il posto di lavoro.

Fatico a trovare differenze con i fascisti della prima ora.

I consigli di Google agli editori



Copio e incollo qui alcune parti di un lungo interessante articolo (Editor & Publisher, 9 aprile 2013) circa il rapporto tra giornali e Google:

Globally, newspaper readership has declined by some 20 percent. Last year, Google raked in nearly $43.7 billion — more than print advertising in newspapers and magazines combined.

Richard Gingras is Google’s head of news and social products. With roots in television, Gingras’ work in online services reaches back to the beginning of interactive media in the U.S. He has shaken up “old media” by likening newspapers to outdated Internet portals such as AOL and Yahoo. Unless print publishers can adapt to the Web — rather than fight it — they are doomed, Gingras has warned.

“Sometimes, I think folks in the news industry like to comfort themselves by thinking that somehow we’re going from a transition from one point of stasis to another, and then it’ll all become cozy again, and we can sit back and breathe easy for another 50 years,” Gingras said in an October 2012 seminar at Stanford. “That’s clearly not going to be the case — things are going to continue to change.”

TV threatened newspapers, too
In January, Gingras spoke at Arizona State University, stressing that old models for revenue, content, and storytelling need to be completely rethought, rather than merely transformed, for the news business to thrive in the digital age. “As long as one thinks transformationally, you limit your capabilities because you limit yourself,” he said. “It doesn’t work. Worse than not working, it becomes self-defeating … We really do need to rethink everything.” An example of that thinking is lack of innovation when it comes to story pages online. “It stuns me that 15 years in, we’re still seeing story architectures mimicking the traditional architecture of print,” he said.

The Google exec shared data that explained how the introduction of television in 1949 took advertising dollars away from newspapers, causing the loss of some local newspapers. This contraction resulted in monopoly or near-monopoly papers that suddenly became hugely profitable.

“They went from fighting for every ad dollar to having near monopolistic control over local ad pricing,” he said. “They had tremendous distribution leverage and used it to their fullest advantage. The open distribution of the Internet destroyed that leverage, but the openness of the Internet also brought the potential for many new voices.”

Gingras told that media organizations need to re-engineer the ways they gather and distribute news, and the way they do business. They need to change their strategies at the rapid pace that the digital world changes.

Still, Gingras acknowledged that it’s not easy to turn those opportunities into profit. News sites are caught in the middle of a highly competitive market for online display advertising, and Google itself is now a multibillion-dollar player in the display ad world.

giovedì 4 aprile 2013

Nella cronaca di 12 ore tumultuose, tutte le crepe nella strategia e nella coesione dei grillini

di CLAUDIA FUSANI
sull'Unità del 4 aprile 2013

Alla fine di un’altra giornata di disastri
- due deputati rimproverati per strada
dai passanti stufi dei «no» a Cinquestel-
le -, lacrime - quelle della deputata Giu-
lia Sarti smentite dalla stessa -, intervi-
ste dal sen fuggite ma forse no - quella
del senatore Lorenzo Battista - e le di-
missioni respinte dall’aula della senatri-
ce Mangili, gli tocca postare un altro
messaggio. Per tenere la linea politica
che sbanda ogni giorno. Questa volta
Grillo se la prende direttamente con i
cittadini-elettori, la base elettorale,
quella che mugugna - e non da oggi - sul
blog contro l’inerzia Cinquestelle.

«Se volevate l’accordo con il Pd, allora ave-
te sbagliato a darci il voto, dovevate dar-
lo al Pd» scrive il comico alla fine di una
serie infinita di interrogativi polemici
del tipo: «Perché hai votato il MoVimen-
to 5 Stelle? Per fare un governo con i
vecchi partiti? Per votare in Parlamen-
to i meno peggio? Per discutere con il
pdmenoelle di programma quando
quello del M5S è il suo esatto contra-
rio? Per spartire poltrone e posti di co-
mando a partire dalle presidenze di Ca-
mera e Senato?». È l’ennesima porta in
faccia al Pd. Questa volta il comico deci-
de di far sentire il rumore direttamente
ai suoi elettori, se avete capito male, la
prossima volta sapete come fare. Ed è
anche la negazione di ogni forma di dis-
senso e di confronto interno.

Ogni giorno ha la sua pena. Quelle di
Grillo stanno diventando croci enormi.
I capi comunicatori si sforzano a dire
che va tutto bene, che i «dissensi» sono
invenzioni dei giornalisti, le «fratture»
il risultato di visioni del terzo tipo. Il
coordinatore dei comunicatori, il Byo-
blu Claudio Messora, mostra le stimma-
te della politica reale - cicatrici di her-
pes da stress intorno alla bocca - e se la
prende perché la sala registrazioni vi-
deo - al secondo piano di palazzo Mada-
ma - «non è stata ancora insonorizzza-
ta».

La verità è che i Cinquestelle fanno
in tempo a tappare un buco e subito se
ne apre un altro. Ormai siamo oltre i
casi isolati. Dei 163 eletti, 80 sono con-
trari a fare almeno i nomi di un governo
a Cinquestelle come stabilito dalla Tri-
nità Grillo-Casaleggio-Becchi, ma 30
sono a favore di unminimo di interlocu-
zione con Bersani e Napolitano e un’al-
tra decina si astiene. Segno che è come
minimo incerto.

Dopo venti giorni in Parlamento, i grilli
sono sempre meno compatti. E attra-
versati dai dubbi. «Abbiamo perso
un’occasione» dice il senatore
Lorenzo Battista, triestino, «dove-
vamo portare almeno un nome per il
candidato premier. Avere proposte, di-
mostrarsi incisivi, essere capaci di con-
cretezza non sono mai azioni criticabi-
li».

Davanti alle parole in chiaro di Batti-
sta lo staff dei comunicatori allarga le
braccia, non possono controllare tutti.
Davanti alle lacrime di Giulia Sarti fan-
no trapelare che «la ragazza è sotto
stress», in ogni caso la diretta interessa-
ta smentisce di aver versato lacrime. Di
fronte al post della deputata bolognese
Mara Mucci -«occorre fare un passo
concreto verso una reale proposta di go-
verno» - lo staff dei comunicatori al se-
condo piano ammette: «Non sarà mai
data libertà di coscienza nel voto. Que-
sto il Pd e Bersani se lo possono scorda-
re. Noi siamo qui per stare all’opposizio-
ne. Detto questo, diamo per scontato di
poter perdere qui al Senato 5-6 voti».

L’ultima grana arriva nel primo po-
meriggio. Intorno alle sedici l’aula del
Senato respinge le dimissioni della se-
natrice grillina Giovanna Mangili. E lo
fa costringendo il Movimento ad uscire
allo scoperto su uno dei punti cardine
di ogni democrazia rappresentativa: la
libertà di coscienza, l’assenza di vincolo
di mandato, il rispetto dell’articolo 67
della Costituzione («ogni membro del
Parlamento rappresenta la Nazione ed
esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato») che infatti Grillo ha addita-
to fin dall’inizio come una delle prime
cose da modificare. La senatrice Mangi-
li non ha mai messo piede al Senato per-
ché, appena eletta, sul web apparvero in-
sinuazioni circa quelli che Benedetto
Della Vedova (Sc) ha definito ieri in au-
la «inciuci di parentopoli brianzole». In
pratica avrebbe raccolto le preferenze
grazie al marito assessore. Ieri l’aula
era chiamata, da regolamento, a votare
sulle dimissioni, voto imposto proprio a
tutela del parlamentare. Pd, Pdl, Scelta
Civica, nessuno ha avuto dubbio: «La se-
natrice venga in aula a spiegare e la
ascolteremo ricordando la libertà di co-
scienza di ogni eletto» ha detto Anna
Finocchiaro, «in attesa respingiamo».

Che non può certo essere la Rete, ha
aggiunto la Mussolini, «a dire cosa deve
o non deve fare un senatore». Crimi ha
replicato che la decisione era già stata
presa dal gruppo. Poi ha potuto solo rac-
cogliere i suoi fogli, tornare in ufficio e
sopportare l’ennesimo sfogo di Grillo.
Via web.

Il comico-padrone non ammette sma-
gliature. Ha detto no anche ad ogni in-
terlocuzione con i saggi di Napolitano.
E i ragazzi nel pomeriggio obbediscono
e verbalizzano con tanto di comunica-
to. Uno vale uno, era il motto. Tra i Cin-
questelle non lo dice più nessuno.

mercoledì 3 aprile 2013

Anche ItaliaOggi analizza i punti di forza del Daily Mail online

Da ItaliaOggi del 2 aprile 2013


Il Daily Mail dice no ai
sistemi di notizie a paga-
mento. Il quotidiano bri-
tannico dedicato al gos-
sip e al mondo delle celebrità
di tutto il mondo va così in
controtendenza rispetto alle
grandi testate inglesi come il
Sun e il Telegraph, ma anche
rispetto a quelle globali come
il Washington Post. Del
resto, il Daily Mail è, a oggi,
il sesto sito di news più traf-
ficato al mondo e precede an-
che siti del calibro di Yahoo,
YouTube e Msn in Gran Breta-
gna. Ma perché il giornale di in-
discrezioni rifiuta l’idea di porre
un accesso a pagamento per le
proprie notizie? Perché è inu-
tile, è stato spiegato durante
una presentazione aziendale,
visto che i ricavi sono spinti
soprattutto dalla pubblicità
del giornale e il fatturato
complessivo è cresciuto nel
2012 del 3%, pari a 820 mi-
lioni di sterline (circa 972,5
milioni di euro).

Di tutti i ricavi, poi, arrivano dal digitale
150 milioni di sterline (+34%)
mentre le vendite e la raccol-
ta pubblicitaria dell’edizione
cartacea assicurano altri 655
milioni di sterline, giù di un
contenuto 1% (rispettivamen-
te pari a 178 milioni di euro e
776,8 milioni di euro).
L’accusa, secondo alcuni
critici del Daily Mail, è però che
le testate che trattano argo-
menti più seri come i l Wa-
shington Post non possano
appoggiarsi a un pubblico
vasto come gli appassionati
di gossip. Ma, dalla direzio-
ne del Daily Mail, è parti-
ta la controffensiva editoriale:
«Noi diamo al web quello
che chiede, indiscrezioni e
storie interessanti. Abbiamo
su internet un’edizione nati-
va e ne aggiorniamo ogni 30
minuti l’homepage. Per noi
parlano, quindi, i numeri.
Per esempio, gli oltre 100 mi-
lioni di utenti unici mensili
che visitano www.dailymail.
co.uk».

martedì 2 aprile 2013

Scalfaro, Ciampi, Napolitano: i migliori tra gli italiani. Il Quirinale garanzia della democrazia


di CLAUDIO GIUA

Il Piccolo di Trieste 3 aprile 2013

Quasi ventun anni fa, subito dopo la strage di Capaci, un Parlamento sotto shock elesse Oscar Luigi Scalfaro presidente delle Repubblica. Toccò a lui guidare la transizione dalla prima alla seconda Repubblica e poi impedire che il trionfante Silvio Berlusconi comprasse, con blandizie ed elargizioni, il futuro degli italiani. Cattolico praticante, democristiano certamente non progressista, fu un capo dello Stato sanguigno e controverso, guidato dalla stella polare della Costituzione. Che ha difeso con tutte le sue energie fino alla morte, l'anno scorso.
Sette anni dopo, al Quirinale arrivò Carlo Azeglio Ciampi, laico, a lungo governatore della Banca d'Italia, convertito alla politica solo per tirarci fuori dalla crisi economica e morale in cui c'eravamo incagliati all'inizio degli anni novanta. Mise al centro della sua presidenza la riscoperta dei valori della Resistenza e il costante richiamo alla necessità di tenere sotto controllo i conti pubblici. È soprattutto suo il merito se siamo entrati dalla porta principale nell'Europa della moneta comune.

Nel 2006, poco dopo la risicata vittoria di Romano Prodi alle politiche, per la prima volta un ex comunista fu eletto alla massima carica dello Stato. Da allora, Giorgio Napolitano è stato protagonista costante della vita politica e democratica, con alcuni passaggi esaltanti e altri difficilissimi, dallo straordinario successo del centocinquantesimo anniversario dell'Unitá d'Italia ai quattro anni di debordanti olgettine e igieniste dentali, dalla nascita del partito democratico alla crisi globale sottovalutata dal governo Berlusconi. Poi, la decisione di affidare a Mario Monti il compito di ridare qualche credibilità al nostro paese, con riforme impopolari ma non più eludibili. Ora, a poche settimane dal termine del suo settennato, ancora una volta Napolitano è stato chiamato a dare le risposte che i partiti e movimenti (anzi, soprattutto i movimenti che vorrebbero rappresentare il "nuovo") non hanno saputo trovare.

Questa breve e molto incompleta storia di tre presidenti tanto diversi quanto positivi mi serve per dire una cosa molto semplice: dal 1992, una delle poche certezze che noi cittadini abbiamo è che al Quirinale c'è qualcuno su cui contare. Con la Banca d'Italia - a parte la parentesi Fazio - e la Corte Costituzionale, è la presidenza della Repubblica a garantire che la nostra democrazia tiene nonostante i cavalieri, le dame, i ballerini e i cortigiani. Giorgio Napolitano ha dimostrato di essere un politico di straordinari lungimiranza, fantasia e acume, qualità che politici e pseudo-politici con venti, trenta, persino quaranta anni più giovani non possiedono nemmeno in parte.
Napolitano resterà dunque a fare il suo mestiere fino all'ultimo giorno. Non ho mai dubitato del contrario, nonostante ancora sabato mattina molti sostenessero che sarebbe tornato anzitempo a casa sua, in vicolo del Boschetto, a duecento metri dal Quirinale. Dobbiamo incrociare le dita e sperare che anche il prossimo presidente sia il migliore degli italiani. Come furono e sono Scalfaro, Ciampi e Napolitano.

Dati personali e privacy: sei paesi, Italia compresa, contro Google

Fonti: Ansa e siti specializzati
2 aprile 2013

Un'azione concertata di sei paesi dell'Unione europea tra cui l'Italia per aprire un'istruttoria sul rispetto della disciplina europea sulla protezione dei dati personali da parte di Google. E' l'azione intrapresa dai Garanti della privacy, oltre che del nostro paese, di Francia, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi e Spagna che per questo hanno acceso un faro sul colosso di Mountain View "per verificare il rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali".

L'iniziativa della task-force dei sei Garanti europei si riferisce all'unificazione della 'privacy policy' di diversi servizi (da Gmail a YouTube a Google Maps, solo per citarne alcuni) messa in campo da Mountain View un anno fa. Tra marzo e ottobre 2012 il gruppo delle Autorità della privacy dei 27 Paesi dell'Ue l'ha analizzata per stabilire se fosse in linea con i requisiti della Direttiva europea sulla protezione dei dati, che risale al 1995.

PAlla luce dei risultati di questa analisi, i Garanti hanno chiesto a Google di adottare entro quattro mesi una serie di modifiche necessarie per assicurare la conformità dei trattamenti alle disposizioni vigenti.

Decorso questo periodo, alcuni rappresentanti di Google hanno chiesto un incontro con la task-force che si è tenuto il 19 marzo scorso a seguito del quale la società, "nonostante avesse manifestato la propria disponibilità non ha ancora adottato alcuna iniziativa concreta".

Ciascuna delle sei Autorità coinvolte condurrà, pertanto, "ulteriori accertamenti con il formale avvio di procedimenti distinti ma in stretto coordinamento tra loro".

"Azioni concertate come quella di oggi devono diventare la regola e non essere più l'eccezione", commenta Viviane Reding, vicepresidente della Commissione europea che lo scorso anno ha presentato una proposta di revisione della direttiva del 1995 attualmente in vigore. Nel nuovo testo è previsto, tra l'altro, un meccanismo di sanzioni che valgano per l'intero territorio dell'Unione europea, con multe che potranno arrivare al 2% del fatturato. "Ho fiducia che entro quest'anno il Parlamento europeo e gli stati membri rafforzeranno sostanzialmente gli strumenti a disposizione", conclude Reding.

Il Garante italiano Antonello Soro ha commentato “Google non può raccogliere e trattare i dati personali dei cittadini europei senza tenere conto del fatto che nell’Unione europea vigono norme precise a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Ue”.

“L'azione congiunta dei Garanti europei mira a riaffermare questo principio e a far sì che questi diritti vengano garantiti”.

“Il Garante italiano è da tempo impegnato sul fronte internazionale proprio per operare affinché la privacy dei cittadini europei venga rispettata, non solo dalle imprese dell’Ue, ma anche da parte dei big della Rete e da tutte le società che operano nel settore delle comunicazioni elettroniche, ovunque esse siano stabilite. Vogliamo impedire che esistano zone franche in materia di diritti fondamentali”.

Scalfaro, Ciampi, Napolitano: i migliori tra gli italiani. Il Quirinale garanzia della democrazia

di CLAUDIO GIUA
Giornali Finegil 2 aprile 2013

Quasi ventun anni fa, subito dopo la strage di Capaci, un Parlamento sotto shock elesse Oscar Luigi Scalfaro presidente delle Repubblica. Toccò a lui guidare la transizione dalla prima alla seconda Repubblica e poi impedire che il trionfante Silvio Berlusconi comprasse, con blandizie ed elargizioni, il futuro degli italiani. Cattolico praticante, democristiano certamente non progressista, fu un capo dello Stato sanguigno e controverso, guidato dalla stella polare della Costituzione. Che ha difeso con tutte le sue energie fino alla morte, l'anno scorso.
Sette anni dopo, al Quirinale arrivò Carlo Azeglio Ciampi, laico, a lungo governatore della Banca d'Italia, convertito alla politica solo per tirarci fuori dalla crisi economica e morale in cui c'eravamo incagliati all'inizio degli anni novanta. Mise al centro della sua presidenza la riscoperta dei valori della Resistenza e il costante richiamo alla necessità di tenere sotto controllo i conti pubblici. È soprattutto suo il merito se siamo entrati dalla porta principale nell'Europa della moneta comune.

Nel 2006, poco dopo la risicata vittoria di Romano Prodi alle politiche, per la prima volta un ex comunista fu eletto alla massima carica dello Stato. Da allora, Giorgio Napolitano è stato protagonista costante della vita politica e democratica, con alcuni passaggi esaltanti e altri difficilissimi, dallo straordinario successo del centocinquantesimo anniversario dell'Unitá d'Italia ai quattro anni di debordanti olgettine e igieniste dentali, dalla nascita del partito democratico alla crisi globale sottovalutata dal governo Berlusconi. Poi, la decisione di affidare a Mario Monti il compito di ridare qualche credibilità al nostro paese, con riforme impopolari ma non più eludibili. Ora, a poche settimane dal termine del suo settennato, ancora una volta Napolitano è stato chiamato a dare le risposte che i partiti e movimenti (anzi, soprattutto i movimenti che vorrebbero rappresentare il "nuovo") non hanno saputo trovare.

Questa breve e molto incompleta storia di tre presidenti tanto diversi quanto positivi mi serve per dire una cosa molto semplice: dal 1992, una delle poche certezze che noi cittadini abbiamo è che al Quirinale c'è qualcuno su cui contare. Con la Banca d'Italia - a parte la parentesi Fazio - e la Corte Costituzionale, è la presidenza della Repubblica a garantire che la nostra democrazia tiene nonostante i cavalieri, le dame, i ballerini e i cortigiani. Giorgio Napolitano ha dimostrato di essere un politico di straordinari lungimiranza, fantasia e acume, qualità che politici e pseudo-politici con venti, trenta, persino quaranta anni più giovani non possiedono nemmeno in parte.
Napolitano resterà dunque a fare il suo mestiere fino all'ultimo giorno. Non ho mai dubitato del contrario, nonostante ancora sabato mattina molti sostenessero che sarebbe tornato anzitempo a casa sua, in vicolo del Boschetto, a duecento metri dal Quirinale. Dobbiamo incrociare le dita e sperare che anche il prossimo presidente sia il migliore degli italiani. Come furono e sono Scalfaro, Ciampi e Napolitano.
Mail c.giua@kataweb.it
Twitter @claudiogiua

lunedì 1 aprile 2013

Il tennis continua ad attrarre investitori. In barba alla crisi

Tennis e sponsorship, un interessante articolo di Claudio Plazzotta su ItaliaOggi del 30 marzo 2013.

di CLAUDIO PLAZZOTTA

Intristiti dalle sirene ita-
liane di una decrescita
felice, di una qualche bel-
lezza intrinseca nel di-
ventare più poveri, ecco che
è forse il caso di prendere una
bella boccata di aria fresca in
mondi dove di queste amenità
nessuno vuol sentire parlare.
Uno su tutti, il tennis. È fini-
to da poco il torneo di Indian
Wells, nel deserto california-
no, ora si sta giocando quel-
lo di Miami, in Florida, e in
quegli ambienti non si parla
altro che di investimenti e
sviluppo.

Ci sono i montepremi in
decollo verticale (per fare un
esempio, il prize money degli
Us Open del prossimo set-
tembre sarà di 25,8 milioni di
euro, +31,7% sul 2012, in un
crescendo wagneriano che lo
porterà a 38,4 milioni di euro
nel 2017, in pratica il doppio
rispetto al 2012), ci sono gli
sponsor che non vedono l’ora
di versare milioni di dollari
nelle casse di organizzatori e
giocatori.

E non sono solo marchi
tecnici, propri del gioco
del tennis. No, ormai i
campioni vengono scelti
anche da aziende che, fino
a qualche tempo fa, nes-
suno avrebbe avvicinato
a racchetta e palline. Ha
iniziato Uniqlo, catena
giapponese di abbiglia-
mento diffusa in tutto il
mondo (non ancora in
Italia), che al Roland
Garros 2012 comin-
ciò a vestire il numero
uno Nole Djokovic,
prendendo il posto di
Sergio Tacchini.
In questi giorni, in-
vece, ecco il colosso
della moda low cost, la sve-
dese H&M, che debutta come
stilista del campione ceco To-
mas Berdych (il numero 6
in classifica), con un contratto
a lungo termine che sostituisce
quello che in precedenza
il tennista aveva con Nike.

A breve debutterà anche una
collezione «tennis couture» in
tutti i negozi H&M, così come
già accaduto negli store della
catena giapponese. Naturale,
comunque, che le strategie di
Uniqlo e H&M non puntino
più di tanto al decollo delle
loro vendite in ambito sporti-
vo, quanto, piuttosto, a usare
la bellissima immagine del
tennis, sport r i c c o d i
eventi di r e s p i r o
mondiale, per consol idare
la propria b r a n d
i d e n tity e il proprio business (era
già accaduto tra gli anni 70 e
80 con i marchi di sigarette
Kim e Muratti Ambassa-
dor, che però all’epoca tenta-
vano, in quel modo, di aggira-
re i divieti sulla pubblicità del
tabacco).

La grande forza del ten-
nis sono i quattro tornei del
Grande Slam: Australian
Open in gennaio, Roland Gar-
ros a Wimbledon tra maggio
e luglio, Us Open tra agosto
e settembre. Un poker d’assi
che vale, da solo, un fattura-
to di circa 620 milioni di euro
ogni anno.
C’è poi quello che sembra
destinato, tra qualche anno, a
diventare i l quinto
Slam, ovvero il torneo
di Indian Wells, nel deserto
californiano. È un combined (tor-
neo maschile e femminile in
contemporanea) che si gioca
in marzo su 11 giorni, con un
montepremi di 11 milioni di
dollari (8,5 mln di euro). L’ul-
tima edizione 2013 ha avuto
382 mila spettatori. Ma nel
2014 dovrebbe essere pronto
un nuovo ulteriore stadio da
8 mila posti, con progetti che
stimano di arrivare, nel 2018,
a 500 mila spettatori com-
plessivi, ovvero più di Parigi
e Wimbledon, che non hanno
la sessione serale. La diffe-
renza, a Indian Wells, la fa il
proprietario del torneo: Lar-
ry Ellison, ovvero il fondato-
re e presidente di Oracle, un
signore che è nella top five
degli uomini più ricchi
al mondo, con un patri-
monio personale di 40
miliardi di dollari (30,7
mld di euro), e che non
lesina certo investimen-
ti sul suo giocattolo (a
patto che non finisca per di-
struggerlo, come ha invece
fatto con la Coppa America
di vela). Non è un caso che lo
stesso Rafa Nadal, vincitore
dell’edizione 2013, dopo aver
abbracciato il suo allenatore,
sia andato personalmente
sotto la tribuna a stingere la
mano ad Ellison (una scena
che non si vede mai su altri
campi).

Che nel tennis girino tanti
soldi, e che le crisi economi-
che e finanziarie non tocchi-
no campi e racchette, lo di-
mostrano i montepremi dei
tornei. Nel 2013 quello degli
Australian Open è salito a
quasi 24 milioni di euro, con
un +15,4% sul 2012.
E si è detto del boom agli
Us Open, con un raddoppio dei
premi dal 2012 al 2017, e un
+32% tra il 2012 e il 2013.
Peraltro, stanno per inizia-
re gli incontri tra giocatori e
organizzatori per ridiscutere
pure i premi di Parigi e Wim-
bledon. In sostanza, i quattro
tornei dello Slam, come anti-
cipato, fanno incassare cir-
ca 620 milioni di euro (110
milioni di euro in Australia,
160 mln a Parigi, 180 mln a
Wimbledon, 170 mln agli Us
Open di New York) di cui, al
momento, meno del 15% va in
montepremi (circa 86 mln di
euro). La fetta, invece, deve
aumentare, per adeguarsi a
quello che già avviene, negli
Stati Uniti, in tornei come
quelli di baseball, basket, golf
o football.

Il Roland Garros, nel 2012,
ha distribuito 24,1 milioni
di dollari (16,2 mln di euro,
+6,8% sul 2011). Wimbledon
2012 è invece a 26 milioni di
dollari (20 mln di euro, +10%
sul 2011).
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