lunedì 22 aprile 2013
Il ritratto di Alberto Sordi che Oriana Fallaci fece nel '62. Da antologia. Vorrei saper scrivere così
Non avevo mai letto questo ritratto di Alberto Sordi scritto da Oriana Fallaci nel 1962. Ora capisco molto meglio perché Sordi fu e resta l'italiano archetipo degli italiani. È dico: darei molto per saper scrivere come la Fallaci.
L’Europeo, settembre 1962. Riproposto dal Foglio, 22 aprile 2013
C'era stata la faccenda della granatina con la pan-
na, quando non so in quale articolo avevo scritto
che non voleva offrirmi un’altra granatina con la pan-
na, o qualcosa del genere, e malgrado fossero passati
quattro anni non sembrava disposto a perdonarmi:
inutilmente gli spiegavo che lo scopo del mio incontro
era nobile. Non della sua presunta avarizia intendevo
parlare, ma del suo personaggio, di ciò che rappre-
senta in questa Italia prospera e pia che lo ha eletto a
Ripeteva che aveva molto da fare, che stava dop-
piando Mafioso di Alberto Lattuada, che stasera
avrebbe dovuto partire per Salice Terme e: «Mi ha
dato dell’avaro, mi ha dato. Siccome non ho colpe, né
vizi, e non do noia a nessuno, e non appartengo a
quella banda di signorini che si tingono gli occhi, voi
giornalisti vi siete messi in testa di trovarmi un di-
fetto e mi date sempre dell’avaro. E dite che mangio
poco per risparmiare, che fumo le Nazionali per ri-
sparmiare, che bevo aranciate per risparmiare, una
volta avete scritto perfino che risparmiavo l’esca nel
pescare: prima di mettere il verme sull’amo, lo ta-
gliavo a metà e infilavo in tasca la seconda metà. Io
la granatina con la panna gliel’avevo ordinata. Se ne
voleva un’altra doveva dire: ne voglio un’altra».
Intervenne Castone Bettanini, il segretario-consi-
gliere-amministratore che da 12 anni gli fa da ange-
lo custode e in tal compito si annulla talmente da
usare il «noi» come i pontefici e i re: «Ricordiamo be-
nissimo che ci incontrammo alla Casina Valadier a
Roma e le offrimmo la granatina con la panna. Quan-
do lei l’ebbe finita, le chiedemmo se desiderava
qualche altra cosa, lei rispose di no, che la granatina
con la panna era buona e l’aveva gradita. Questo di-
storcere la realtà ci ferisce e ci offende. A ogni modo
siamo oberati di numerosi impegni e l’incontro è im-
possibile». «Ma via, signor Bettanini, ma via. Scher-
zavo e il signor Sordi, che è un raffinato umorista, do-
vrebbe capirlo. Le porgo le scuse, facciamo la pace».
«Accettiamo le scuse ma non possiamo fare la pace.
Fare la pace ci indurrebbe a parlare delle nostre fi-
danzate e noi rifiutiamo questo argomento in quan-
to desideriamo ardentemente sposarci senza offrirci
qualche motivo di beffa. Vero Alberto?». Intervenne
Alberto: «Mi avete scocciato. Tutte le volte che mi
piace una ragazza, mi fate l’articolo con le fotografie
e: Sordi si sposerà entro l’anno, tra dieci giorni, fra
24 ore. Be’? Me le volete far conoscere queste ragaz-
ze? Me le volete far frequentare? Se non le frequen-
to, se non le conosco, come faccio a sposarle? E se ne
sposo una e poi non mi va bene, dove la metto? Di-
vorzio, me la tengo, la ammazzo? Mi fate sempre fret-
ta, mi fate, mi volete a ogni costo dar moglie. La vo-
glio, va bene, la voglio: scruto e analizzo tutte le ra-
gazze che incontro, ma quando mi oriento verso qual-
cuna e chiedo a suo padre il permesso di frequen-
tarla, non mi dovete irritare. Ce ne sono a migliaia
che vorrebbero sposare un attore, che crede?». «Ha
ragione, signor Sordi. Chissà cosa farei, io, per avere
le doti che cerca, farla felice».
E allora lui mi buttò in faccia quegli occhi roton-
di, diffidenti, impauriti: da volpe che teme di cader
nella trappola e allo stesso tempo vuol vedere che
razza di trappola. «Lei è sposata?». «Ecco, io...». «Di-
vorziata?». «Vede, io...». «Vedova?». Esitai, signori, un
lungo momento durante il quale il pericolo di entra-
re a far parte della schiera delle probabili candida-
te a un probabile fidanzamento in vista di un proba-
bile matrimonio con Alberto Sordi mi si presentò in
tutto il suo spaventevole rito: esame di Castone Bet-
tanini, presentazione agli amici importanti, visita al-
le sorelle e alla casa, telefonate insistenti, lettere
dolci, copertina sui settimanali, litigio, poi, inevita-
bile, irrimediabile, irrevocabile, l’abbandono per
bocca di Bettanini che ne dà l’annuncio al babbo e
alla mamma: «Abbiamo letto sui giornali la notizia
del matrimonio di cui dovremmo essere protagonisti
con la vostra figliola e ci duole dirvi che siamo com-
pletamente all’oscuro di tale progetto. Noi nutriamo
per la vostra figliola sentimenti di cordiale simpa-
tia ma non abbiamo mai preso in considerazione l’e-
ventualità di assumere un ruolo più impegnativo».
Non era accaduto press’a poco così con le altre? «Ve-
dova», esclamai. «Chissà perché mi muoiono tutti,
ma tra un po’ mi risposo e spero che il prossimo rie-
sca a campare». «Ah!», disse lui con gioioso sollie-
vo. «Ah! Allora facciamo la pace, andiamo a man-
giare».
E fu così che diventammo amicissimi e scoprii ciò
che cercavo: il gran personaggio nascosto in que-
st’uomo puntiglioso, sospettoso, difficile, che a 42 an-
ni è il più famoso cittadino d’Italia e sia che cerchi
moglie sia che giri un film, la simboleggia con la stes-
sa violenza con cui Gary Cooper o Clark Gable rap-
presentarono l’America, Jean Gabin o Gérard Phili-
pe la Francia, Laurence Olivier o Alec Guinness l’In-
ghilterra. Pochi italiani, in questi anni privi di glo-
ria, sono amati nel nostro Paese come Alberto Sordi.
I suoi film vanno via come il pane, coloro che non li
hanno mai visti costituiscono un numero esiguo e in-
giustificato. Le sue avventure amorose interessano
quanto quelle di un re, è accertato che i giornali ven-
dono più copie quando annunciano un suo fidanza-
mento di quando annunciano un divorzio di Liz Tay-
lor. Il suo volto, che è pesante, infingardo, tutt’altro
che bello, resta simpatico in uguale misura ai pove-
ri e ai ricchi, ai giovani e ai vecchi, ai maschi e alle
femmine, ai comunisti e ai cattolici. La sua ricchez-
za, che è enorme, si regge su proprietà edilizie e ter-
riere e su un gran conto in banca, e sembra che ol-
trepassi di gran lunga il miliardo. Eppure è accetta-
ta senza proteste sia dagli ignoranti sia dagli intel-
lettuali. Gli intellettuali lo paragonano a Molière e
quasi quasi vorrebbero veder la sua testa sui fran-
cobolli. Né ciò accade soltanto perché diverte il tipo che
recita sullo schermo: vigliacchetto e arrangione, pre-
potente con i deboli e ossequioso con i forti, «sempre
pronto a correre in soccorso dei vincitori». Accade
perché piace lui, il suo cinismo, il suo conformismo,
il suo egoismo, la sua ingenuità, la sua semplicità, la
sua mancanza di erudizione, il suo buonsenso pae-
sano.
«Vede», disse quando fummo al ristorante, «molti
mi danno dell’avaro perché, anziché andare nei ni-
ght club, preferisco giocare a scopone con i miei ami-
ci: ma è colpa mia se mi diverto più a giocare a sco-
pone che ad andare nei night club? Altri mi danno
dell’avaro perché non ho l’aereo personale o lo ya-
cht; ma è colpa mia se ad andare sugli aerei piccini
ho paura e dello yacht non so che farmene? Molti in-
vece mi dicono egoista perché, pur ripetendo che
vorrei esser sposato, sono ancora scapolo. Da scapo-
lo, dicono, ho tutti i vantaggi e nessuna responsabi-
lità: le camicie si allineano ben stirate dentro il cas-
setto, i pranzi e le cene sono preparati come piac-
ciono a me; e con le sorelle posso fare il mio como-
do, come non potrei fare con la moglie. Non è vero:
sono un marito nato e questa della famiglia è una
spina nel cuore. L’idea di morire senza aver messo al
mondo un figliolo, anzi molti figlioli, mi tormenta fi-
no allo spasimo: oltretutto a che serve aver guada-
gnato tante ricchezze se poi non le lascio a nessuno?
D’altronde, è colpa mia se sono prudente e la fami-
glia la vedo all’antica, non voglio ripetere gli errori
di tanta gente che mi vedo dattorno? Io odio il ri-
schio: al casinò sarò stato tre volte in tutta la vita e
sempre giocando piccole somme».
E più tardi: «Vede, a me non piace andare a cac-
cia, sebbene sia un gran tiratore.Una volta, a Formia, mi ci portò
un contadino e, al momento di sparare, sparai sui
bussolotti. Detesto l’idea della morte quanto la vista
del sangue. L’idea di tagliarmi un dito mi turba co-
me l’idea di bucarmi il sedere con le iniezioni. La
guerra non la conosco: da soldato suonavo i piatti
nella banda dell’Ottantunesimo reggimento fanteria.
Li suonavo benissimo, con le vibrazioni e tutto, ma
per tutto il tempo che son rimasto dentro l’esercito
non ho visto un fucile, ho solo suonato quei piatti:
dan! Quando la guerra scoppiò, la mia banda musi-
cale fu spedita a Mentone, qui si accorsero che non
avevamo nemmeno un fucile e così ci rispedirono a
Roma. Fui molto contento. L’eroismo, l’audacia sono
per me cose scomode: da seguire tutt’al più alla fi-
nestra per coglierne i lati ridicolmente patetici o tra-
gicamente umoristici. Una secolare pigrizia, un istin-
tivo disgusto per le grandi emozioni mi impediscono
di prendervi parte».
Tutto questo, è evidente, piace agli italiani che du-
rante la guerra non suonavano nemmeno i piatti e
tutt’al più facevano l’antifascismo ai caffè: vale a di-
re la maggioranza. Abbiamo fama di partorire poe-
ti, santi e navigatori, ma la leggenda è eccessiva e
Sordi, nel suo onesto cinismo, è l’unico ad ammet-
terlo: mesi fa, quando la tv inglese lo intervistò nel-
la sua nuova casa, si fece trovare con i calzoncini cor-
ti e un aquilone in mano. Poi dichiarò: «Questa lus-
suosa dimora mi è stata donata dal governo italiano
perché in un Paese in cui tutti sono santi, poeti o na-
vigatori io sono l’unico a non essere un santo né un
poeta né un navigatore; sono solo un comico che a
quest’ora gioca con l’aquilone. L’aquilone mi piace
perché non è uno sport pericoloso». E se ne andò
cantando: «Bella se mi vuoi beeennee, dammi un ba-
cin d’amooreee...».
L'angoscia, l’alienazione, l’incomunicabilità, insom-
ma le eleganti complicazioni che da qualche anno
vanno di moda in Italia, non lo sfiorano neppure per
caso. Ha un sistema nervoso eccezionale che gli con-
sente di dormire quando vuole e quanto vuole: per
dieci minuti, se ha deciso di dormire dieci minuti, per
nove ore se ha deciso di dormirne nove. Non ha mai
preso una pillola e la sua salute è di ferro: anche per-
ché mangia poco, beve meno, e non fuma quasi nien-
te. Lalienazione è per lui soltanto una parola ridico-
la e un po’ misteriosa. Lincomunicabilità non esiste
nel suo vocabolario nemmeno quando perde o pian-
ta una donna: «Evidentemente ciò accade perché ci
siamo comunicati benissimo che non eravamo fatti
l’uno per l’altra. A proposito di comunicabilità, le pia-
ce l’America? A me, tanto. Soprattutto New York. Ah,
quella folla, quei grattacieli: come ci comunico bene.
E poi gli americani sono così imprevedibili. Il luglio
scorso, quand’ero a New York per girare certe scene
di Mafioso, abitavo in un albergo di fronte al Central
Park e sa cosa vedevo tutte le sere nel Central Park?
Un omino che, dopo aver dato da mangiare agli scoiat-
toli, stendeva i giornali sul prato, si adagiava sopra i
giornali, si copriva con altri giornali, e lì dormiva fi-
no al mattino. Una sera mi prese la voglia di andare
a lasciargli una bottiglia di latte, due o tre stecche di
cioccolata, qualche pacchetto di sigarette, e questo bi-
glietto: “Caro americano, tu non mi conosci ma io sì.
Sei uno degli americani che liberarono Roma e ci re-
galavano il latte, le sigarette e la cioccolata. A quel
tempo tu eri ricco e io povero. Ora invece tu sei pove-
ro e io sono ricco: perciò ti rendo il latte, le sigarette,
e la cioccolata. Tuo Alberto Sordi”». «E lo fece?», gli
chiesi. «Oh no! Chissà cosa sarebbe successo».
Dice Lattuada: «È un uomo che io non capisco.
Quando mi chiedono di lui posso dir solo questo: è
disciplinato come un soldato ed è un attore eccezio-
nale perché non appartiene a nessuna delle catego-
rie di attori che noi registi siamo usi a tollerare; lui
è creativo, anziché assimilare passivamente ciò che
gli chiedi, te lo restituisce interpretato e arricchito.
Quanto alla sua personalità non professionale ho ca-
pito una cosa: odia il rischio come i funghi, non mon-
terebbe a cavallo di un asinello: è il buonsenso fat-
to persona. Basta veder la sua casa».
La casa del buonsenso, voglio dire di Alberto Sor-
di, sorge dinanzi alle Terme i Caracalla, in uno dei punti più
eleganti di Roma. È una grande villa color mattone,
a tre piani, circondata da un parco pieno di fontane,
vialetti, terrazze, verande, dépendances e una pisci-
na a forma di chitarra dove nessuno o quasi nessu-
no fa il bagno. Apparteneva al segretario di Benito
Mussolini, Alessandro Chiavolini, e Sordi la comprò
per non si sa quale cifra, la rimodernò spendendovi
non meno di 100 milioni. Contiene infatti una venti-
na di stanze a mantenere le quali non bastano sei
persone di servizio, un elettricista e un idraulico. Al-
tri tre servitori tuttofare vi accudiscono a ore, vale
a dire dalla mattina al pomeriggio, senza contare le
due sorelle di Sordi, Aurelia e Savina che, nubili e
cinquantenni, ne curano l’amministrazione. Aurelia
e Savina sono del resto, con Alberto, le sole abitan-
ti della villa: Bettanini abita per conto suo con la mo-
glie; e Pino, il fratello maggiore, vive con la famiglia.
Ciò induce al sospetto che si tratti davvero di una ca-
sa eccezionale, e spiega perché nessun giornalista e
nessun fotografo (categoria che Sordi considera co-
me la più diretta collaboratrice del fisco) vi ha mai
messo piede. Quando io chiesi di farmici entrare,
eravamo alla frutta, Bettanini rispose con un diplo-
matico no: «Ci dispiace ma non possiamo esaudire
questo suo desiderio poiché le nostre sorelle sono
tornate appena ieri dal mare e la nostra casa è in di-
sordine». Fu necessario arrivare al secondo caffè,
darci addirittura del tu, perché Sordi tornasse sulla
decisione dell’angelo custode: visto che alle 11.30 lui
prendeva il treno che lo avrebbe portato a Milano, di
lì a Salice Terme, visto che io partivo alla medesi-
ma ora, tanto valeva recarsi insieme alla stazione.
E visto che ci recavamo insieme alla stazione, tan-
to valeva muoversi insieme da casa sua. Un quarto
alle dieci Bettanini sarebbe passato a prelevarmi in
albergo. «Ok?». Ok.
Ero un poco eccitata, lo ammetto. Pur avendogli
detto tante menzogne sul mio stato civile, aver ri-
nunciato perciò a ogni possibilità di diventar la sua
sposa, non riuscivo a sottovalutare, ecco, l’importan-
za di una visita che, bene o male, era la stessa com-
piuta dalle sue fidanzate quando, se è vero ciò che es-
se affermano ed egli smentisce, lui le spingeva con
dolcezza attraverso le stanze e diceva: «Ecco la casa
dove cresceranno i nostri bambini». Avrei visto le
suocere, pardon, le cognate? Avrebbero esse credu-
to alla storia delle mie vedovanze funeste? E come mi
avrebbero accolto? Bettanini, al volante, taceva: sem-
pre più perplesso e meno entusiasta della familiarità
esplosa tra me e l’uomo sul quale avevo diffuso l’in-
fame storiella della granatina con la panna. Poi si
fermò dinanzi a un cancello, mi fece inoltrare lungo
un grazioso vialetto, passare attraverso un elegantis-
simo ingresso in un grande salone da cui partiva una
scala di marmo, e quasi intuisse il mio turbamento mi
dette da bere. Le sorelle non c’erano; grazie a Dio,
erano andate al cinematografo. C’era invece il fra-
tello che è placido, tondo, cinquantenne, e se ne fre-
ga di chi va e di chi viene: lui viene ogni tanto «a da-
re una mano» e questa sera si trovava lì dentro esclu-
sivamente perché veniva a Salice Terme, dove ha cer-
ti affari. Io chi ero? Una fidanzata di Alberto? Co-
munque, ecco Alberto, che scendeva con un sorriso
orgoglioso sulla bocca a salvadanaio e diceva: «Io mi
chiedo se questa è la casa di un uomo che non paga
una granatina con la panna», e ora andava mostran-
do la collezione di uccelli in porcellana lungo la sca-
la di marmo, gli affreschi settecenteschi trasportati
da chissà quale palazzo, le poltrone e i divani acqui-
stati per iperboliche cifre dai più esosi antiquari d’I-
talia e di Francia, le maioliche rare, le terrecotte da
museo, gli argenti di trecent’anni. Era la sua grande
rivincita di romano nato in Trastevere, dentro un ca-
samento con i muri scrostati, le inquiline linguac-
ciute sul pianerottolo, i bambini sudici nel cortile, un
padre insegnante di basso tuba a chissà quale sti-
pendio mensile e una mamma che lava i piatti di-
cendo: «Vorrei proprio sapere come se la caverà quel
ragazzo da grande, non ha voglia di far nulla».
La grande rivincita del romano nato in Trasteve-
re comprendeva anche uno studio degno di un pre-
sidente della Repubblica con la biblioteca di acero e cuoio
e i libri del defunto critico e giornalista Ermanno
Contini: 3mila volumi ricomprati per giusto prezzo
dagli eredi e che solo a sfogliarli basterebbero a fa-
re di chi li possiede un uomo coltissimo. Comprende-
va una camera da letto con un letto del Seicento e un
cassettone con lo stemma dei Grimaldi, un guardaro-
ba ampio come un magazzino della Rinascente: cen-
tinaia di giacche tutte uguali e in fila come fantasmi,
una toeletta con la poltrona da barbiere, allungabi-
le, e un gran rispetto per la ricchezza. «Quando ero
povero, non facevo mai le pernacchie ai ricchi. I ric-
chi e gli importanti li ho sempre guardati con defe-
renza e simpatia». Comprendeva una cappella che
presto si riempirà con una collezione di arte sacra
moderna, «qualcosina di Picasso, qualcosina di Matis-
se, qualcosina di Chagall», e dove ogni domenica mat-
tina un prete dice la messa privata. «Naturalmente
faccio anche la comunione e questa è una gran bella
comodità: negli ultimi tempi non potevo entrare in
chiesa senza che i fedeli venissero a domandarmi
l’autografo e se non era l’autografo era un via vai, un
bisbigliare ecco Sordi, guarda Sordi; ciò mi distrae-
va dalle preghiere».
Comprendeva infine una palestra: con il punching
ball per la boxe, la bicicletta fissa per le gambe, il ca-
vallo elettrico per andare al trotto e al galoppo. «Sì,
sono molto sportivo, mi aiuta a non ingrassare». E mai
sportivo fu tanto coerente al suo personaggio: egli è
l’unico italiano, scommetto, che riesce a fare la boxe
senza prendere pugni, ad andare in bicicletta senza
cascare, a cavallo senza ruzzolare.
D’altra parte, perché non assolverlo? «Io credo»,
usa dire, «che ogni uomo abbia la sua realtà. Meschi-
na o splendida che sia, egli deve accettarla e co-
struirci sopra senza rimpianti». E la sua realtà è
quella di un piccolo borghese dalla prudenza grani-
tica, l’audacia pressoché inesistente; ecco: allo stes-
so modo in cui evita di andare alla guerra e a caccia,
sebbene sappia sparare ottimamente con il fucile,
evita di fare a pugni con un uomo vivo e di cavalca-
re su un cavallo vivo. Nessuno lo ha mai visto accet-
tare una rissa, un vero litigio: questa è la sua forza e
il suo limite. Ma un particolare che nessuno imma-
gina lo riscatta dalla minaccia di tanto squallore: la
tristezza della sua solitudine. I suoi veri amici sono
pochi: Rodolfo Sonego, lo sceneggiatore che gli scri-
ve gli sketch, Mario Monicelli, Mario Bonnard, Dino
De Laurentiis, al quale è legato con ferreo contrat-
to. Dai De Laurentiis va abbastanza spesso: gli pia-
ce stare con Silvana Mangano e con i bambini, che
lo chiamano zio.
Gli altri li vede a casa sua per qualche serale par-
tita a scopone, o proiezione di film: accanto alla pa-
lestra c’è un grande teatro che può servire in ugual
modo a darvi recite o a proiettarvi film. Non di rado,
però, i suoi amici lamentano problemi famigliari, di
lavoro, e allora non c’è altro che lui dentro il grande
teatro: così siede solo solo nel buio, a riguardare sul-
lo schermo se stesso, uno dei cento film che custodi-
sce in cabine refrigerate. E la malinconia che questo
accada anche domani, e dopodomani, e dopodomani
ancora, per mesi, per anni, ha il valore di una reden-
zione.
«Alberto Sordi», chiesi quando sostammo dentro il
teatro, «hai mai pianto? Piangi?». Lui rispose di no,
l’ultima volta in cui aveva pianto aveva tre anni; poi,
aggiunse che via, bisognava andare alla stazione, era
tardi. Il giorno dopo eravamo tutti a Salice Terme, do-
ve gli avrebbero dato, come premio per il migliore at-
tore comico dell’anno, una automobile. L’albergo do-
ve eravamo era circondato da uno splendido parco
pieno di aiuole, porticati, gazebo, un decadente ro-
manticismo. Arrivando notò che gli ricordava L’anno
scorso a Marienbad (film del 1961 di Alain Resnais, con
dialoghi di Alain Robbe-Grillet, ndr) e domandò a chi
gli stava dintorno se lo avevano visto. Nessuno lo ave-
va visto. Però Il vigile lo avevano visto.
Lui sussurrò appena: «Davvero». E invece di veder-
lo ridere, contento, mi sembrò di vedergli aggrottare
la fronte, tirar fuori un rassegnato sospiro. Qualcuno
disse che, malgrado i suoi italiani difetti, le sue italia-
ne virtù, egli resta uno dei pochi degno d’essere pre-
so sul serio.
Oriana Fallaci
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