giovedì 23 maggio 2013

Dal primo di agosto in vigore la nuova legge tedesca sui diritti collegati ai contenuti. Attese dure reazioni di Google

On 14 May the ancillary copyright for publishers got promulgated in the Federal Law gazette and will enter into force on 1 August 2013 in Germany. According to the law, a press publisher has the exclusive right to make press material available, in whole or in part, for commercial purposes, unless it concerns only single words or small text extracts. However, making the press material publicly available is not entirely covered: only that which is undertaken by commercial search engine providers or providers of commercial services that process the content accordingly is covered.

For several years the German Association of Magazine Publishers, VDZ, has underlined that the adoption of such a law is indispensable to ensure that publishers themselves can decide on how their content is used by third parties. The adoption of the ancillary right for press publishers has therefore closed a legal loophole. Even if the text adopted does not consider all the ideas of publishers, the new intellectual property right for press publishers is an important element of a fair legal framework for the digital world.

The law will allow publishers to determine themselves if and under which conditions their content can be used by search engines and aggregators for commercial purposes. An automatic right of use is not connected to the system adopted. Rather, it is up to the publishers to make the business decision whether to agree with search engines and aggregators who wish to use the contents for commercial purposes. The adoption of the ancillary copyright is, therefore, an important signal that underlines the value of journalistic content and the free press.

sabato 18 maggio 2013

Malagò: sono un po' Grillo e un po' Renzi, ma sono legato a Letta, Gianni Letta...


Dall'Unità del 18 maggio 2013

di CLAUDIA FUSANI

Per gli sportivi la presidenza del Coni a Giovanni Malagò è il cigno nero, l’evento imprevisto, un po’ come quando Roma o Lazio vincono lo scudetto spezzando la striscia prevista di Juve e Milan. Trovare un quarto d’ora per un faccia a faccia è faccenda complicata. Più per lo staff che lo circonda che per lui, che quel quarto d’ora poi lo trova. Riceve nella sala conferenze del Coni, accanto al suo ufficio. Le rassegna stampa raccontano della prima rivoluzione: il Coni servizi, il braccio operativo che dà e riceve i soldi pubblici, ha un nuovo direttore generale, Michele Uva.


L'hanno definita "il Renzi dello sport". O paragonato addirittura a Grillo per la sua attitudine a rompere gli schemi. L'uno o l'altro?

“Nessuno dei due, perché mi occupo di sport e non di politica. Ed è come se uno volesse paragonare un tennista a un calciatore, due mestieri diversi. Fatta questa premessa, riconosco di condividere con entrambi l’attitudine alla novità. E allora con il sindaco di Firenze, persona di cui sono amico e che stimo, ho in comune l’attitudine al rinnovamento delle persone e dei contenuti. Con Grillo, forse, quella del metodo: sono qui perché ho saputo ascoltare la base, cioè chi in questo paese fa sport e non chi lo gestisce”.

Viene esaltata la sua capacità di presentare con passione un libro di Alemanno e, insieme, di essere amico di Veltroni. E’ la rappresentazione fisica delle larghe intese?

“Mi riconosco la capacità di sapere stare e parlare con tutti. Nella mia vita ci sono fattori vari che mi hanno educato ad essere trasversale e gentile con tutti, anche con chi non condivido la storia politica. A questo aggiungo il rispetto istituzionale senza perdere quello per le idee. Mi piace Kipling quando scrive che si è uomini quando si sa passeggiare con i re senza perdere il contatto con il popolo”.

“Se”, la famosa poesia di Kipling... Possiamo adeguare quel messaggio all’Italia di oggi?

“Non vedo come oggi questo paese possa avere alternative rispetto all’attuale progetto che vede le varie forze politiche unite nel tentativo di trovare le soluzioni necessarie. Per quello che mi riguarda, porto avanti la bandiera della trasversalità da decenni. Questo prescinde, ovviamente, dai rapporti personali”.

Nel manuale Cancelli della politica, la presidenza del Coni equivale almeno a un paio di ministeri. Con portafoglio. È stato eletto rovesciando tutti i pronostici. Ci racconta la sua elezione?
“Anche se rappresento il nuovo, conosco bene questo mondo, quello dello sport. Conosco le varie componenti che esprimono i rappresentanti in consiglio nazionale. Sapevo di poter contare su un presupposto numerico che mi avrebbe fatto vincere. Adesso lo faccio io un paragone: i miei competitor avevano i sondaggi; io conoscevo già i voti. Vede, non è che gli altri hanno dilapidato un vantaggio. Il fatto è che non lo hanno mai avuto anche se erano convinti che gli aventi diritto avrebbero votato per loro”.

45 federazioni, 411 milioni di fondi pubblici che arrivano ogni anno dal ministero del Tesoro. C'è molta attesa - è di stamani un’interrogazione parlamentare dei Cinquestelle - di sapere quali saranno i criteri, l'indirizzo politico che vorrà adottare per distribuire le risorse. Numero delle medaglie ottenute, numero dei tesserati...

“Nè l'uno n'è l'altro. Siamo qui da tre mesi, esiste un metodo vecchio ormai otto-dieci anni. Noi stiamo cercando nuovi parametri e abbiano nominato una commissione con dentro la più ampia rappresentanza delle varie federazioni e numero di discipline. Ascolteremo tutti e saranno decisi i nuovi parametri. Non posso dire quali. Certo saranno nuovi. Quindi diversi da quelli attuali. E sarà tutto trasparente. Pubblico”

La prendiamo in parola. Soddisfatto per la nomina di Josefa Idem a ministra?

“Da morire. Siamo amici. Una persona di famiglia. Farà benissimo perché finalmente abbiamo un ministro dello sport che sa di cosa parla. Con tutto il rispetto per chi l’ha preceduta”.

L'altro giorno, ospite qui al Coni, la ministra ha detto a lei e ai presidenti di federazione: "Fate squadra e tenete gli atleti al centro di tutto" e "Mettete l'onestà in funzione del bene comune". Parole forti, importanti. Lei come le ha intese?

“Le ho ascoltate e condivise con grande gioia, sono le mie parole, dette e ripetute più volte nella mia campagna elettorale”.

E gli altri presenti?

“Standing ovation. Orgoglio perchè uno di noi ora è il nostro ministro”.

Un direttore generale del Ministero della Pubblica Istruzione, Giovanna Boda, siederà nel Cda di Coni servizi. Significa qualcosa?

“Che bisogna ricominciare dalla scuola, dalla famiglia, da una nuova cultura ed educazione allo sport. Finora è stato detto molto e fatto molto poco. Il 38% degli italiani non pratica sport, la percentuale più bassa di tutta Europa. Quasi il 36% degli italiani è sovrappeso e il 10% sono classificati come obesi con un costo sociale annuo di 8,3 miliardi di euro”.

Tra il 6/7% della spesa sanitaria pubblica. Crede di riuscire a cambiare tendenza?

"Esistono varie facce dello stesso problema. E varie soggetti che devono essere messi a sistema per tentare di risolverlo: Pubblica istruzione, Sanità, Politiche giovanili, Pari Opportunità, Sport. Il Coni non è legislatore e non ha responsabilità dirette ma è moralmente responsabile, dalla base fino al vertice passando per una nuova didattica per gli insegnanti di educazione fisica”.

In Italia un ragazzino che fa attività agonistica in età scolastica e magari fa assenze per partecipare a una gara, appena torna a scuola viene interrogato…

“Il punto è che l’attività agonistica andrebbe fatta direttamente a scuola. Servono quattro miliardi per mettere a norma gli edifici scolastici. E’ uno dei primi obiettivi”.

Lei è stato indagato ai tempi dei Mondiali di nuoto per violazione delle norme urbanistiche del Circolo Aniene. Ha fiducia nella giustizia?

“Totale, non mi sono mai nascosto e ho sempre affrontato i giudici. Sono stato prosciolto in istruttoria”.

E ha fiducia nel governo Letta?

“Sono un ottimista. E faccio il tifo. Certo è abbastanza disarmante, ogni mattina, seguire la rassegna stampa, tra la pistola di un deputato Pdl pronta a sparare (la Luger di Piero Longo, ndr) e la proposta di far decadere Berlusconi perché ineleggibile. Il mio consiglio è essere superiori, volare alto, ben sopra i corvi”.

Quanto deve a Gianni Letta?

“Non devo nulla a nessuno. Sono però molto legato a lui. E posso dire che ha avuto un ruolo fondamentale in questa fase del Paese”.


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venerdì 10 maggio 2013

Il turpiloquio e il bullismo sui social. Ne scrive Saviano


Da Repubblica dell'11 maggio 2013

di ROBERTO SAVIANO

È nato un nuovo diritto. Il diritto ai social
network. Il diritto di poter avere un account, di
poter postare, leggere e commentare. In paesi come
la Cina, Cuba, la Corea del Nord, l’Iran l’accesso ai so-
cial network è vincolato o persino negato. Spesso può
avvenire solo in forme clandestine.

I regimi che hanno represso le primavere arabe
vietavano i social network che, in quel contesto,
sono diventati vettori di informazioni necessa-
rie alle proteste e simboli di una rinascita demo-
cratica.

Ma ogni diritto ha delle regole. E nessuno dovreb-
be sentirsi fuori luogo nell’esercitarlo, nessuno do-
vrebbe essere costretto a fare lo slalom tra insulti o
diffamazioni. Eppure è ciò che accade sempre più
spesso. Enrico Mentana annuncia di voler andar via
da Twitter per i troppi insulti ricevuti. Usa la metafo-
ra del bar. Se il bar che di solito frequenti inizia a es-
sere luogo di ritrovo per persone che non ti piaccio-
no, che fai resti o cambi bar? Davide Valentini, un gio-
vane documentarista, fa una riflessione interessan-
te. Secondo lui Twitter innesca l’effetto Gialappa’s
band. Molti commenti intendono portare all’atten-
zione dei propri follower ciò che si ritiene stupido più
che interessante, e lo si fa con parole cariche di sar-
casmo. L’effetto desiderato, e ottenuto, è far sentire
i follower particolarmente intelligenti mentre frui-
scono di un contenuto considerato basso. Quanti
non hanno mai visto il “Grande fratello”, ma adora-
vano “Mai dire Grande fratello”?

Su Twitter ci si sforza di trovare la battuta brillan-
te, spesso feroce. O il tweet è cinico o viene conside-
rato scontato. Ciò che non è crudele, disincantato,
diventa bersaglio della supponenza collettiva. Il po-
litically uncorrect detta legge, l’aberrazione è consi-
derata di culto, ogni provocazione – anche la più stu-
pida – è cool perché rompe gli schemi. Una logica
neocinica sembra aver preso il sopravvento su ogni
cosa.

Ma questa è una degenerazione del mezzo, perché
Twitter nasce per comunicare: è una piattaforma che
mette in connessione chiunque con chiunque. Tut-
to è aperto. Puoi seguire chi vuoi, puoi leggere cosa
scrive Obama, Lady Gaga o il tuo collega, quello che
ha la scrivania di fronte alla tua. La capacità di poter
assistere in tempo reale a ciò che accade nel quoti-
diano e comprendere i punti di vista degli altri, con-
dividerne le conoscenze. Retwitti se trovi interes-
sante una notizia e credi valga la pena sottoporla al-
la tua comunità. Crei dei topic, e puoi farlo chiunque
tu sia. Poi ti capita di essere retwittato da chi ha cen-
tinaia di migliaia di follower e il tuo pensiero inizia a
viaggiare.

Ma può anche accadere che in una piazza affolla-
ta, se si è a corto di contenuti o manca la capacità di
sintesi (la regola su Twitter consiste nel mantenersi
nei 140 caratteri, l’sms di un tempo), si urla per esse-
re ascoltati. Quando il pensiero si semplifica e si ri-
duce al grado zero, a volte c’è posto solo per l’espres-
sione radicale o la battuta estrema. La serietà è ba-
nale, il ragionare scontato. Dunque ecco l’insulto.
Chi ti insulta su Facebook non riesce a fare lo stesso,
però, quando ti incontra di persona perché non ha il
coraggio di mettere la faccia su uno sfogo personale
che si alimenta di luoghi comuni e leggende metro-
politane.

Ho letto che se un post presenta un certo numero
di commenti negativi, chi leggerà quel post sarà na-
turalmente influenzato da quei commenti. Le criti-
che sono sempre benvenute, gli insulti no. Dipende
da noi dargli o meno diritto di cittadinanza. Face-
book e Twitter consentono di poter eliminare l’in-
sulto, bannandolo, cioè mettendolo al bando. Fa
parte delle regole del gioco. Non credo sia corretto
escludere chi fa un ragionamento diverso da quello
proposto, chi critica con linguaggio rispettoso è una
risorsa. Ma è giusto bannare chi usa i commenti per
fare propaganda, chi ripete sempre lo stesso concet-
to quasi a fare stalking, chi – ad esempio – dice di con-
servare una bottiglia di champagne da aprire il gior-
no della mia morte, chi dice di avermi visto a bordo
di una Twingo rossa o una Panda verde a Caivano o a
Maddaloni sottintendendo che non è vero che vivo
sotto protezione.

Agli estremisti della rete che obiettano: “ma que-
sta è censura”, rispondo che chi vuole può aprire una
sua pagina per insultarmi, ha l’intero infinito web
per farlo. È che in realtà l’insultatore vuole vivere del-
la luce riflessa dell’insultato.

Eppure è semplice comprendere come non ci sia
nulla di più dannoso dell’insulto: nulla garantisce
più sicurezza al potere, inteso nel senso più ampio,
se tutto il linguaggio della critica si riduce al turpilo-
quio, alla cosiddetta “shit storm”, alla tempesta di
merda di messaggi senza contenuto rilevante.
Ecco perché la necessità di regole non può passa-
re per censura. Comprendo che la libertà della rete
non può essere strozzata da vincoli, comprendo che
i vincoli possono diventare pericolosi perché peri-
colosa è la valutazione: cosa è legittima critica o cosa
è diffamazione? Ma la gestione delle regole non è un
vincolo, è funzionale al mezzo, alla sua sopravviven-
za, all’interesse che gli utenti continueranno o meno
a nutrire. Per questo Enrico Mentana credo si sbagli
quando dice che o sei dentro o fuori e che non si ban-
na. Bannare è decidere di dare un’impronta al pro-
prio spazio: è esercitare un proprio diritto.

L’educazione nel web, anzi l’educazione al web,
sta ancora nascendo. Scegliere di usare un linguag-
gio piuttosto che un altro è fondamentale. Ogni con-
testo ha il suo linguaggio e quello dei social network
per quanto diretto non è affatto colloquiale. Si nu-
tre della finzione di parlare in confidenza a quattro
amici, – il che giustificherebbe ogni maldicenza,
ogni cattiveria – ma in realtà tutto quello che si di-
ce è moltiplicato immediatamente all’infinito, ed
è quindi il più pubblico dei discorsi. Non si tratta di
essere ipocriti o politicamente corretti (espressione
insopportabile per esprimere invece un concetto
colmo di dignità), ma di comprendere che usare un
linguaggio disciplinato, non aggressivo, costruisce
un modo di stare al mondo. I linguisti Edward Sapir
e Benjamin Whorf hanno teorizzato la relatività lin-
guistica secondo cui le forme del linguaggio modifi-
cano, permeano, plasmano le forme del pensiero. Il
modo in cui parlo, le cose che dico, e soprattutto co-
me le dico, le parole che uso, renderanno il mondo in
cui vivo in tutto simile a quello connesso alle mie pa-
role. Se uso (non se conosco, ma proprio se uso) cen-
to parole, il mio mondo si ridurrà a quelle cento pa-
role. Noi siamo ciò che diciamo. Quindi il turpilo-
quio, l’insulto o l’aggressività costruiscono non una
società più sincera ma una società peggiore. Sicura-
mente una società più violenta. I commenti biliosi
degli utenti di Facebook e Twitter portano solo bile e
veleno nelle vite di chi scrive e di chi legge. Purtrop-
po questa entropia del linguaggio sta contagiando
anche la comunicazione politica, sempre all’inse-
guimento della grande semplificazione, della chiac-
chiera divertente e leggera, della battuta risolutiva.
Spesso parole in libertà, senza riflessione, gaffe con-
tinue alle quali bisogna porre rimedio. La verità è che
se ripeti n pubblico e fesserie dette n privato non sei
onesto e gli altri ipocriti, sei semplicemente maledu-
cato e in molti casi irresponsabile.

Non è libertà – tantomeno libertà di stampa – in-
sultare. È diffamazione. Una parte degli interpreti
talmudici, paragonano la calunnia all’omicidio. E se
penso a Enzo Tortora, non credo sbagliassero di mol-
to. La democrazia è responsabilità e sono convinto
che le regole e la marginalizzazione – non la repres-
sione – della violenza e della trivialità salveranno la
comunicazione sui social network. Chi vuole usare il
network solo per fare bullismo mediatico potrà apri-
re l suo personale fight club, senza nutrirsi – come un
parassita – della fama degli altri.

giovedì 2 maggio 2013

La concretissima metafora di Guantanamo

Sul Foglio del 3 maggio 2913

di Adriano Sofri

In calce alla lettera del detenuto yemeni-
ta a Guantánamo pubblicata lo scorso 14
aprile dal New York Times si legge qualche
centinaio di commenti. Uno dice: “Io con-
cordo col senatore McCain, che fu lui stes-
so vittima di tortura. Quando un altro sena-
tore gli disse: ‘Perché dovremmo preoccu-
parci di questi terroristi?’, McCain replicò:
‘Non si tratta di chi sono loro, ma di chi sia-
mo NOI. Noi siamo gli Stati Uniti d’Ameri-
ca, e gli Stati Uniti d’America non tortura-
no la gente”.

Nella lettera, Samir Naji al Hasan Moq-
bel, 35 anni, descrive minutamente il tor-
mento dell’alimentazione forzata attraver-
so il sondino nasogastrico. (Ne ha scritto
qui Daniele Raineri lo scorso 17 aprile).
“Sono detenuto a Guantánamo da 11 an-
ni, non ho ricevuto alcuna imputazione,
non ho avuto alcun processo… Sostennero
che fossi una ‘guardia’ di Osama bin Laden,
una cosa insensata, mi sembrava uscita dai
film americani che mi piaceva guardare.
Nemmeno loro sembrano crederci più…
Non dimenticherò mai la prima volta che
mi hanno infilato il tubo nel naso. Mi lega-
no alla sedia nella mia cella due volte al
giorno. Non so mai quando arriveranno, a
volte vengono durante la notte... Il 15 mar-
zo ero malato nell’ospedale della prigione
e mi sono rifiutato di mangiare. Una squa-
dra della Extreme Reaction Force /poi ri-
battezzata eufemisticamente Forcible Cell
Extraction: estrazione energica…/ ha fatto
irruzione. Mi hanno legato mani e piedi al
letto e inserito a forza una flebo nella ma-
no. Ho passato 26 ore in questo stato, lega-
to al letto. Non sono potuto neanche anda-
re in bagno. Mi hanno messo un catetere,
un’azione dolorosa, degradante e non ne-
cessaria. Non mi è stato permesso neanche
di pregare… Durante una nutrizione forza-
ta l’infermiera ha spinto sbrigativamente il
tubo in profondità dentro il mio stomaco.
Ho pregato di sospendere, si è rifiutata.
Stavano finendo, quando un po’ di quel ‘ci-
bo’ si rovesciò sul mio abito. Chiesi di cam-
biarlo, ma la guardia mi negò questo estre-
mo appiglio di dignità”.

La cosa di cui si sta parlando è la nutri-
zione forzata. (Quella, mutatis mutandis,
cui una legge di Stato avrebbe voluto assog-
gettare anche tutti i cittadini liberi del no-
stro paese).

Avrete letto i racconti sui viaggi nei vago-
ni piombati, sull’umiliazione terribile dei
bisogni corporali. Parlai con molti vecchi
ceceni che avevano subito la deportazione
staliniana in Kazakistan o in Siberia. Non
sono cose che si possano dire, rispondeva-
no. Abbassavano la testa e sussurravano
che molte persone si facevano morire sui
treni per la vergogna.

Dice una mia amica: “Ho letto che il New
York Times ha pagato l’articolo al detenu-
to yemenita (la tariffa standard: 150 dollari)
e che quei soldi saranno spediti alla sua fa-
miglia nello Yemen. Confesso che ho pensa-
to, sentendomi poi molto in colpa: chissà
cosa ne sarà di quei soldi, ci compreranno
il cibo per i bimbi o ci costruiranno una
bomba come quella che è scoppiata a Bo-
ston, che costa 100 dollari?”.

Già. Il dilemma breve della mia amica
serve a ricordarsi, oltre che dei principii,
della differenza fra prevenzione e repres-
sione. Coi detenuti senza imputazioni di
Guantánamo, supposti pericolosi e resi pe-
ricolosi, la differenza è bruciata. La repres-
sione vuol essere preventiva. Ma il cibo per
i bimbi non è, a chi pensi così, una vera al-
ternativa: nutrite i bambini a Gaza o in Li-
bano o in Pakistan, e forse qualcuno di lo-
ro, senza nemmeno aspettare d’esser cre-
sciuto abbastanza, si metterà addosso una
cintura esplosiva e si farà scoppiare in
mezzo a una folla di “nemici”. Ma non pos-
siamo affamare preventivamente mezzo
mondo – e più. E’ già affamato abbastanza
di suo. Non possiamo affamarne nemmeno
uno solo, abbastanza da rimandarlo al
Creatore.

Intanto, però, ricordiamoci del mondo in
cui viviamo ordinariamente, del nostro an-
golo di pianeta. Nel cantone di Zurigo, il 16
aprile, un carcerato comune, cittadino sviz-
zero di 32 anni, condannato nel 2009 per
tentato omicidio, è morto nell’ospedale in
cui era stato trasferito dopo uno sciopero
della fame iniziato nello scorso gennaio.
Aveva rifiutato ogni intervento medico, e la
sua volontà è stata riconosciuta legittima e
rispettata.

Il 30 aprile, negli Stati Uniti, mentre il
presidente Obama tornava a dichiarare il
proprio desiderio di chiudere Guantána-
mo, il presidente dell’American Medical
Association protestava contro la nutrizione
forzata: “Ogni paziente ha diritto di rifiu-
tarla anche se ne dipenda la sua vita”.
Il 21 aprile è stato l’Independent a pub-
blicare il testo di un altro detenuto di
Guantánamo, Shaker Ameer, saudita, 45 an-
ni. Anche lui è lì da undici anni, è stato pro-
sciolto da ogni accusa nel 2007. Scrive fra
l’altro: “La Grande menzogna orwelliana è
l’idea che tenere 166 prigionieri a Cuba
serva a tenere l’America al sicuro dall’e-
stremismo… Su 779 detenuti dal 2001, 613
sono stati rimandati a casa, e gli Stati Uni-
ti hanno prosciolto 86 dei prigionieri che
sono ancora buttati qui dentro. Complessi-
vamente, più del 90 per cento del totale,
che gli stessi americani ammettono di aver
detenuto calunniosamente”.

Perché Obama si è rassegnato a una
sconfitta come la mancata chiusura di
Guantánamo? Ha forse temuto l’impopola-
rità, o ha ceduto alle pressioni degli spe-
cialisti dell’antiterrorismo – anche a un
Presidente americano si può dire: Ragaz-
zo, lasciaci lavorare. C’è una spiegazione
più forte: la paura che qualcuno dei prigio-
nieri, liberato, possa compiere attentati
cruenti contro cittadini americani. (Una
specifica moratoria alla riconsegna di de-
tenuti yemeniti è stata decisa da Obama).
Una simile eventualità gli costerebbe ca-
rissima. Si può anche considerare un ver-
sante umano, non strumentale, della deci-
sione. Se per suo ordine venissero libera-
ti prigionieri, e divenissero autori di atten-
tati contro cittadini americani (o del mon-
do), gliene cadrebbe addosso una respon-
sabilità grave da portare. Suggerisco di
confrontare questo dilemma con la routine
dei nostri magistrati di sorveglianza, che
(con eccezioni anche rilevanti) sono spa-
ventosamente restii ad applicare le leggi
che li autorizzano, e le circolari ministe-
riali che li sollecitano, a concedere ai de-
tenuti misure come i permessi, il lavoro
esterno, la detenzione a domicilio. Le sta-
tistiche mostrano inequivocabilmente co-
me queste misure riducano in proporzio-
ne assai maggiore le recidive. Ma la buro-
crazia dei magistrati di sorveglianza, ado-
ratrice della pigrizia e però vanitosa, è so-
prattutto attenta a sventare la cattiva stam-
pa. Un detenuto in semilibertà che com-
metta un delitto capace di suscitare indi-
gnazione e raccapriccio costa caro. Anche
nel nostro caso, il giudice, o la giudice, dai
quali dipende la libertà piena o relativa
dei detenuti, possono essere frenati dalla
preoccupazione sincera per il rischio di
azioni gravi di cui porterebbero la respon-
sabilità e il rimorso, anche se le statistiche
dichiarino irrilevanti gli episodi di tra-
sgressione. Non c’è paragone fra il potere,
e la responsabilità, del presidente degli
Stati Uniti e dei nostri magistrati di sorve-
glianza: tuttavia il meccanismo psicologico
è simile. C’è un’altra, essenziale differen-
za. Che i nostri magistrati hanno a che fa-
re, almeno formalmente, con detenuti di
cui è stato accertato un reato. Obama de-
cide di persone detenute senza imputazio-
ni né processo regolare, e in alcuni casi di
accertata non colpevolezza, benché se ne
dichiari una pericolosità. Nel caso di
Guantánamo, la durata e le condizioni di
detenzione sono così brutali che bastereb-
bero da sole a fare di chi le subisce, fosse
anche la più innocente delle persone, un
pericoloso vendicatore. Si può dire che
questo è un caso esemplare di una violen-
za che si vuole legale ed eccita una violen-
za opposta, al punto di vietare a se stessa
ogni ritirata. Un sequestro di persona che
E’ un circolo vizioso, dal quale si potreb-
be uscire solo se le pressioni di opinione
per la chiusura di Guantánamo diventasse-
ro più forti delle pressioni dei poteri per
tenerla aperta. Ipotesi remota.

Ma ecco che la paradossale casistica an-
titerrorista offre un’altra spettacolare con-
traddizione. L’amministrazione di Guantá-
namo tiene forzatamente in vita persone
che considera nemiche, impedisce violen-
temente loro di morire. Alla rovescia che
nella pena di morte, li condanna alla pena
di vita, per così dire. Morti, la danneggereb-
bero più che da vivi. All’origine di questa
ondata di scioperi della fame – quasi cen-
to – sta un ennesimo sequestro di Corani, e
forse la morte di un altro detenuto digiu-
natore, yemenita anche lui, il 6 febbraio.
Io conosco una galera, è ripugnante, fe-
roce, normale. Il mio solo vantaggio è che
sono più di un altro spinto a immaginare
come possa essere Guantánamo. “ Siamo
in tanti a digiunare ora, che non ci sono
abbastanza operatori dello staff medico
qualificati per eseguire le nutrizioni for-
zate; niente avviene a intervalli regolari.
Alimentano le persone in continuazione
per tenergli dietro”. Poi leggiamo che a
Guantánamo, essendo i digiunatori a ol-
tranza arrivati al numero di 100 su 166 (se-
condo uno dei difensori, sono addirittura
136), sono stati fatti affluire 42 nuovi me-
dici e infermieri per far fronte all’emer-
genza. Io chiudo gli occhi, e provo a vede-
re 92 celle con 92 corpi legati mani e pie-
di ai loro giacigli o alle loro sedie, e cin-
quanta medici e infermieri che corrono
dall’uno all’altro a spingere a forza il son-
dino nei 92 nasi e a infilare l’ago nelle 92
mani, una catena di montaggio della so-
pravvivenza e di smontaggio della vita e
dell’umanità. Non so se sia mai esistito
qualcosa del genere. Di peggiore sì, di più
brutale ancora, di più malvagio, di più. Ma
una cosa così, no.

E adesso completiamo l’impressione sul-
la contraddizione dei carcerieri che tengo-
no forzatamente in vita i loro nemici giura-
ti, se non altro perché li hanno catturati
quando non era ancora arrivato il tempo
dei droni, della eliminazione anonima e da
lontano, senza l’odore dei corpi. I combat-
tenti “kamikaze” avevano inventato su lar-
ga scala, a leve ininterrotte, l’arma della
propria morte. Come si può intimidire e re-
primere chi non ha paura di morire, e an-
zi vi aspira? E’ intervenuto qui un contrap-
passo al dannato culto americano per la pe-
na di morte. Li si fa vivere a forza. No, non
vivere, sopravvivere. L’alternativa di quei
prigionieri senza processo non è fra la vita
e la morte: è fra la morte e la sopravviven-
za non voluta. Il suicidio è vietato loro, an-
che quel più disperato e tenace suicidio
che consiste nel lasciarsi morire. Chi riten-
ga di avere un’obiezione insuperabile al di-
ritto delle persone a suicidarsi, il diritto ri-
conosciuto nel cantone di Zurigo al detenu-
to morto di inedia, ha qui un caso concre-
to col quale misurare la propria intransi-
genza. A Guantánamo si tengono persone, a
tempo illimitato, in una condizione tale da
far loro preferire la morte, e proibendo lo-
ro di morire.

Postilla. Quello che succede nell’estremo inferna-
le di Guantánamo, succede, più vicino e
mortificato, anche in una comune galera
nostra. Che si trattino i detenuti in modo ta-
le da indurli a desiderare il suicidio – e in-
fatti si suicidano. Dopo si protesta che biso-
gnava impedirlo con una vigilanza più oc-
chiuta. Una vigilanza occhiuta ed efficace,
che impedisca a chi vuole suicidarsi di far-
lo, è impossibile: e se fosse possibile – cel-
la nuda, detenuto nudo, pareti imbottite,
occhio del sorvegliante o della telecamera
sempre acceso – toglierebbe al sorvegliato
qualunque desiderio che non fosse quello
di ammazzarsi, o di essere ammazzato. Al-
la prima distrazione.

Non penso che i nemici non esistano. Il
Vecchio Testamento è tutto una storia di
nemici. Quanto al Nuovo, dice che bisogna
amarli, non dice che non esistono. Ci si può
arrovellare senza fine attorno a questa apo-
ria. L’altra guancia è una meravigliosa me-
tafora, ma non riesce ad avere ragione del-
la realtà: non per me, almeno. Non per
esempio quando la prima guancia e la se-
conda non sono le tue, ma quelle di un’al-
tra o un altro, e quegli altri ti sono affida-
ti, o finiscono feriti sulla tua strada. Mi di-
co che un criterio – uno dei tanti, uno par-
ticolare, non universale, non risolutivo – è
che non dovrai mai essere così duro col tuo
nemico che la vergogna e la compassione
suscitate dal tuo modo di trattarlo ecceda-
no e quasi cancellino le sue malefatte, per
enormi che siano. (A volte, quel trattamen-
to è inflitto a un nemico senza malefatte –
ulteriore incidente). Questo succede con i
prigionieri di Guantánamo. E non invo-
cherò un calcolo economico: Guantánamo
che costerà, è già costata, agli Stati Uniti –
e non solo a loro, “a noi” – più di una bat-
taglia perduta, eccetera. Piuttosto la condi-
zione umana, che non è, a differenza dal-
l’economia, relativa.

A Guantánamo sono detenuti all’infinito,
senza il diritto a un processo giusto, 166 uo-
mini. Stanno fuori dalla geografia degli Sta-
ti e del diritto, su un brandello di Cuba che
è extraterritoriale e extralegale, un altro
pianeta. Ma sono umani.

In quella condizione estrema, a mani nu-
de e corpi esausti, quei prigionieri si sono
ribellati lo scorso 14 aprile contro un nuo-
vo trasferimento da un dormitorio comune
a celle separate. La ribellione è stata seda-
ta a colpi di “proiettili non letali”.

Mi sono arrovellato attorno alla tortura
da quando ero ragazzo. Nella educazione
dei ragazzi della mia generazione teneva
una parte rilevante, difficile da immagina-
re oggi, l’aspettativa di una prova che mi-
surasse il coraggio fisico, la lealtà, la fe-
deltà all’ideale e alla propria comunità. Al-
meno nel mio caso, prima che alla Resi-
stenza e alla sinistra, quell’educazione era
improntata al Risorgimento e all’irredenti-
smo, e a modelli di abnegazione dal segno
politico indeterminato: i ragazzi dei rac-
conti mensili del libro “Cuore” (ancora) o
i ragazzi della via Pal, per esempio. Si sa-
rebbe stati coraggiosi di fronte al nemico?
Si sarebbe stati dignitosi e fieri nelle ma-
ni del nemico? Si sarebbe avuta la forza di
resistere, e di non tradire i propri compa-
gni e la propria fede? Riassumo così il noc-
ciolo di un’educazione maschile del Dopo-
guerra, che poteva diventare una tensione
intima dell’autoformazione personale. Su
quell’idealismo generico e però sentito co-
me un destino si innestavano poi le cono-
scenze contemporanee e le prime esperien-
ze civili. Io avevo 16 anni quando uscì per
Einaudi “La tortura” di Alleg. In quell’edu-
cazione – nel mio caso, almeno, ma non cre-
do che fosse raro – prevaleva una dimensio-
ne “militante”, che avrebbe assunto forme
diverse e via via più definite, ma serbando
quel fondo, frutto di una guerra calda appe-
na conclusa, di una guerra fredda virulen-
ta, e di molte guerre locali scandalose in
corso, coloniali, civili, partigiane.

Era la premessa per un piccolo racconto
personale: ho fatto un’esperienza, benché
eccentrica, di tortura. Ho agonizzato a not-
te fonda in una cella di carcere, dopo che
mi si era spezzato l’esofago. La mia cella era
un cubicolo di due metri e mezzo per uno e
mezzo, con un cesso alla turca separato dal
cuscino della branda da un muricciolo di 30
centimetri. Su quel cesso sono restato a gia-
cere, svenuto e poi incapace di muovermi,
nel vomito, nel sangue, nelle feci e nell’uri-
na. Assieme al dolore, mi batteva nella
mente la frase: “Inter faeces et urinam na-
scimur”, e il suo complemento, inter faeces
et urinam moriamo. Trovai la forza di bat-
tere alla parete, i miei vicini chiamarono al
soccorso, fui trasportato all’ospedale. Ebbi
pochi brevi momenti di lucidità prima d’es-
sere operato d’urgenza e posto in coma in-
dotto, e ci restai per molti giorni. Tre gior-
ni dopo l’intervento, fui tracheostomizzato.
Clinicamente, ero del tutto privo di cono-
scenza. Tuttavia, man mano che una specie
di conoscenza distorta affiorava – non potet-
ti parlare per un mese, e le mie mani ave-
vano disimparato a scrivere – l’effetto degli
anestetici possenti che avevo ricevuto, spe-
cialmente il curaro, credo, avevano indotto
in me una spaventosa paranoia. Mi trovavo
nel luogo di un sequestro, nelle mani di tor-
turatori segreti. Essi non sapevano che mi
accorgessi della loro presenza e delle loro
manovre. Più tardi avrei scherzato con loro
di quel terribile delirio. Il capo della mia
rianimazione, una giovane persona meravi-
gliosa con una gran barba nera, era per me
Verchovenskij. Lo scopo di quella banda
era di torturarmi, umiliarmi e costringermi
a tradire me stesso. In un sotterraneo adia-
cente alla mia camera di tortura erano se-
polti vivi i miei compagni di carcere, obbli-
gati a stare ammassati nei loro escrementi.
Per solidarietà con loro, io dovevo riuscire
a rifiutarmi di defecare e urinare, come si
pretendeva invece da me per umiliarmi.
Sentivo che se avessi saputo resistere, sa-
rebbero tornati a uccidermi. Arrivai a cre-
dere che i miei famigliari fossero, perché
ingannati o perché corrotti, complici della
persecuzione. Muto com’ero, ero certo di
raccontare loro tutti i dettagli della congiu-
ra contro me e i miei compagni, e non pote-
vo rassegnarmi alla loro inerzia. C’era un
infermiere anziano che veniva regolarmen-
te a malmenarmi, e chiedevo a mio figlio di
comprare dei gamberoni per corromperlo e
salvarmi dalle sue brutalità. (In carcere i
gamberoni erano la posta prediletta delle
partite di calcio o di carte: un giorno alla
settimana si potevano ordinare alla spesa).

Quel delirio era così vivido – mai nella vi-
ta, affatto alieno come sempre fui a ogni
droga, ho sperimentato una simile lucidità
– che ancora stasera mi pare che mio figlio
mi abbia salvato in cambio dei gamberoni.
Da allora (sono passati più di sette anni) ho
un’idea precisa, terribile e affascinata del-
la paranoia. Ma anche della tortura. In quei
primi giorni doveva essere escluso che
avessi qualunque percezione della realtà
esterna, e tuttavia io fui aggredito da uomi-
ni bianchi che mi immobilizzarono e volle-
ro sgozzarmi, e solo in extremis, con una so-
vrumana ribellione, riuscii a difendermi
con un braccio (i miei arti e tutto il mio cor-
po erano immobili) e a deviare una pugna-
lata alla mia gola. Fu, credo, il mio modo di
percepire la tracheostomia e di battermi
contro di essa. La lunga vicenda clinica che
attraversai (fui fuori pericolo di vita solo a
mesi di distanza e altri interventi) fu per
me, per tutto quel primo periodo, una orri-
bile esperienza di tortura: ed era una cura
mirabile per dedizione e per bravura di
tante persone.

In questo mio modo, provo a stare nella
pelle nuda di un torturato. Di uno che non
delira, che ha ragione di aspettare in ogni
istante del giorno e della notte un persecu-
tore spietato e arbitrario. Di un corpo in to-
tale balia d’altri, che giocano col suo dolo-
re e la sua mortificazione, che lo spingono
fino alla soglia della morte per negargliela
e tornarne indietro, così da non rinunciare
al proprio gioco. Il gioco degli aguzzini si
addestra nel rapporto che gli umani, a vol-
te anche i bambini, instaurano con gli ani-
mali catturati e tormentati. Non riesco a
credere che la tortura sia un mezzo, maga-
ri penoso e angoscioso, per un fine superio-
re, per avere notizie, per salvare vite minac-
ciate. Io credo che la tortura sia il compia-
cimento che prende la mano di chi ha in
proprio potere pieno un corpo altrui, un al-
tro ridotto a nudo corpo. E’ come quando si
avverte a non lasciare che il proprio anima-
le da preda prenda gusto al sangue, perché
non si riuscirà più a farlo tornare indietro.
Il torturatore che abbia infierito, da solo o
più probabilmente in gruppo, sul proprio
ostaggio, non potrà più accettare che esso
torni alla vita. Non potrà sopportare che
cammini nel mondo qualcuno che conosca
un simile segreto di lui. E’ per questo che
in certi stupri di banda le torture più effe-
rate prendono il sopravvento sulla stessa
bruta soddisfazione sessuale e si concludo-
no con l’assassinio della vittima. D’altra
parte nella tortura il fantasma della sessua-
lità entra sempre violentemente.

E ora torniamo a Guantánamo.
Lo Human Rights Report 2012 del Dipar-
timento di Stato Usa sull’Italia –pubblica-
to lo scorso 19 aprile – è un documento mol-
to interessante. E’ ampio e dettagliato. Li-
mitiamoci qui all’iniziale indice ragionato.
“I problemi maggiori riguardo ai diritti
umani comprendono la costante incarcera-
zione dei detenuti in attesa di giudizio con
i criminali condannati, le condizioni di vi-
ta al di sotto della soglia accettabile in car-
ceri sovraffollate e centri di detenzione per
immigranti privi di documenti, e il pregiu-
dizio generale che diventa in alcune situa-
zioni locali maltrattamento dei Rom, esa-
sperando la loro esclusione sociale e ridu-
cendo il loro accesso all’educazione, alle
cure sanitarie, all’occupazione e ad altri
servizi sociali.

Altri problemi per i diritti umani com-
prendono un impiego eccessivo e abusivo
della forza da parte della polizia in alcuni
episodi, un sistema giudiziario inefficiente
che non offre sempre una giustizia rapida,
la corruzione governativa, la violenza e le
molestie contro le donne, lo sfruttamento
sessuale dei minori, e il vandalismo antise-
mita. Ci sono casi di traffico per lo sfrutta-
mento sessuale e del lavoro. Gli osservato-
ri hanno riferito anche di casi di violenza
contro persone lesbiche, gay, bisessuali e
transgender (Lgbt) e di discriminazione del-
la forza lavoro fondati sull’orientamento
sessuale. Il lavoro minorile e lo sfruttamen-
to di lavoratori irregolari costituiscono an-
ch’essi un problema, specialmente nel sud”.
Nel Rapporto si sottolinea altresì l’as-
senza nel codice italiano del reato di tortu-
ra “e di altri trattamenti o punizioni crude-
li, inumane o degradanti”.

Si legge tutto ciò con attenzione e ap-
prezzamento. Imputati in attesa di giudizio
trattati come i condannati, condizioni car-
cerarie indegne, lentezza dei processi, as-
senza del reato di tortura… D’un tratto
però la memoria di chi legge inciampa in
quel nome: Guantánamo. Dal pulpito di
Guantánamo. Ecco un esempio dello scot-
to che gli Stati Uniti pagano alla supposta
convenienza di quel carcere extraterrito-
riale ed extralegale. Dal punto di vista del-
l’Italia, è poco più di un paragone che to-
glie credibilità alla fonte americana, e re-
ciprocamente offre un alibi alle malefatte
della giustizia italiana. Ma proviamo a im-
maginare la portata del paragone in Ye-
men, o in Afghanistan, o in Pakistan (quan-
to alla Cina, pubblica da 15 anni per ritor-
sione un suo “Human Rights Record of the
United States”, affare di propaganda uffi-
ciale: il cui pezzo forte sono naturalmente
Guantánamo Bay e le strutture di detenzio-
ne della Cia). Guardata dai luoghi del mon-
do in cui cova il terrorismo islamista,
Guantánamo costa lo scandalo dei cuori,
già più di una battaglia perduta.