venerdì 19 luglio 2013

Nessuno ci tocchi il diritto all'indignazione (ma indignamoci meglio)

Dalla Gazzetta di Mantova e da altri giornali del Gruppo Editoriale l'Espresso

di CLAUDIO GIUA


La notizia è che Manolo Mureddu e Fabrizio Cicchitto condividono una richiesta. Entrambi, il sindacalista degli appalti sardi dell'Alcoa (l'altra sera in diretta su La7) e l'ex capogruppo pidiellino (a ogni ora su qualsiasi rete), lamentano che, mentre l'Italia va a rotoli, le tv, i siti di news e i giornali dedichino spazio ed energie soltanto al rimpatrio di due profughe comunque miliardarie e alle farneticazioni di Roberto Calderoli. Mureddu teme che il governo ne approfitti e sposti più in là nella propria agenda le questioni dell'economia e del lavoro, Cicchitto non vuole che gli amici e i sodali coinvolti nelle vicende restino ancora a lungo mediaticamente alla gogna. E chiedono all'unisono che "si discuta piuttosto dei problemi che coinvolgono cittadini e famiglie". 
In effetti, c'è il rischio che l'indignazione sia usata come le pratiche religiose in altri tempi o ad altre latitudini: più che per glorificare il Creatore, per rallentare l'emancipazione di classi e società o la presa di coscienza dei guasti del potere. (Riferendosi agli operai e ai contadini tedeschi di 150 anni fa, Karl Marx scrisse: "La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l'oppio dei popoli"). È vero che fremono frequentemente d'indignazione gli italiani che s'intendono di politica o ne orecchiano la sua versione spettacolarizzata dai talk show. S'indignano per vicende soltanto talvolta condivise. Se chi sta da una parte ce l'ha via via con il sindaco che organizza un ben oliato sistema tangentizio alle porte di Milano, con il presidente di una Camera che procura a un parente un pied-à-terre non suo a Monte Carlo, con la ministra furbacchiona che traffica con l'ICI, quelli dell'altra rispondono con crescente indignazione per il premier che frequenta le minorenni, per il capocorrente che vive in un appartamento con vista che qualcuno gli ha regalato a sua insaputa, per il leader secessionista che rimpinza con denari pubblici le tasche del figlio-pesce. I più indignati sono gli ultimi arrivati sul proscenio politico romano: ancora senza scheletri nell'armadio, s'indignano e non fanno sconti nemmeno ai propri compagni se non obbediscono alle tavole della legge dei due guru dalla grigia chioma ribelle. La loro indignazione è massima e, soprattutto, full time.
Al di là dei sospetti di strumentalizzazione politica dell'indignazione, resta il fatto che il flusso inesausto di informazioni rende sempre più difficile collocare correttamente fatti e fenomeni in una scala di interesse e priorità. Sono più rilevanti le ultime novità sul sequestro di Stato delle kazake e sul razzismo del padre del Porcellum che confonde umani e animali oppure le cifre sullo stato dell'economia? Per esempio, si fatica a scovare sui giornali che secondo gli economisti dell'Ocse è precario il 53 per cento dei pochi under 25 italiani così fortunati da avere un lavoro (la percentuale è quasi raddoppiata rispetto al 2000); che la disoccupazione crescerà almeno per tutto il 2014 fino a raggiungere il 12,6% dall'attuale 12,2%; che per Bankitalia i consumi scenderanno anche nel 2014, dopo il -2,3% di quest'anno e il -4,3% del 2012, perché resterà debole ''la spesa delle famiglie, frenata dall'andamento del reddito disponibile e dall'elevata incertezza sulle prospettive del mercato del lavoro''.
Dunque Manolo e l'ex capogruppo PDL hanno ragione? Di questo ci si dovrebbe indignare e occupare? Nonostante i miei dubbi, la risposta non può che essere no: gli impellenti problemi strutturali o anche solo contingenti italiani non devono sottrarci il diritto all'indignazione. La maturità civile del paese va di pari passo con la sua crescita sociale, che non sempre coincide con quella economica. Per quel che mi riguarda, continuerò a indignarmi. Su che cosa, ho l'imbarazzo della scelta. Come tutti. 
Twitter @claudiogiua


giovedì 18 luglio 2013

L'ultimatum di Almunia a Google. Verso le sanzioni dell'Antitrust europeo?

Google given fresh EU ultimatum over searches

Google must make more concessions to rivals in the way it presents search results if it is to avoid formal charges and hefty fines, the EU's antitrust enforcer has warned.

The latest ultimatum from Joaquín Almunia, the EU's competition commissioner, pushes Google to revise a proposed settlement widely attacked by groups complaining about the US search engine's dominance.

Yet those involved in the talks expect any revisions to fit within the broad outlines of the draft deal, which requires Google to list more of its competitors' services, rather than comprehensively rewrite the terms to achieve a more radical outcome.

"I concluded that the proposals that Google sent to us months ago are not enough to overcome our concerns," Mr Almunia said.

Hardline opponents of the proposed settlement are pushing for Google to treat its own products with the same algorithm that it applies to its rivals, or to spin off its search business entirely.

Mr Almunia makes clear that if the settlement talks fail, the commission will be ready to serve the US group with formal antitrust charges, starting a long and difficult process that could end in fines and private damages claims.

Alex Barker

martedì 9 luglio 2013

Le mancate riforme, il collasso del Parlamento, lo scontro tra poteri

Editoriale per i giornali del Gruppo Espresso

di CLAUDIO GIUA


A me è capitato a cena, qualche sera fa. Ma poteva accadere durante una pausa caffè in ufficio, oppure per strada dopo un cinema. Nel mezzo di un confronto di opinioni sul governo Letta un amico m'ha interrotto e apostrofato aggressivo: dimmi quale riforma degna di questo nome sia stata approvata dal Parlamento negli ultimi vent'anni. Non ho saputo rispondere, non me n'è venuta in mente una. A meno che si classifichi come riforma, che significa "azione che migliora uno stato di cose", la "porcata elettorale" ideata dal leghista Roberto Calderoli nel 2005 (la definizione è di Calderoli, si badi bene).

Poi la discussione tra noi s'è spostata sul ventennio come periodo standard di ogni negativo ciclo storico-politico nell'Italia dell'ultimo secolo. Una semplificazione figlia sia del fascismo, sia del berlusconismo nato il 26 gennaio 1994 con il messaggio televisivo della "discesa in campo". Un altro amico ha obiettato: siete i soliti faziosi, da allora Berlusconi ha governato undici anni suppergiù, per il resto abbiamo avuto maggioranze di centrosinistra con Prodi, D'Alema, Amato, e grandi coalizioni con Monti e Letta. Sì, ho convenuto: però il berlusconismo è una malattia infettiva e ormai cronica della democrazia italiana, che cova e fa danni anche quando sembra che il paese stia tornando in buona salute. Non ho convinto tutti. Anzi. Per fortuna s'era fatto tardi, abbiamo abbassato i toni e la guardia e ce ne siamo andati a casa.

La faccenda delle mancate riforme di vent'anni è però rimasta lì, a tormentarmi. Perché l'Italia, pur avendo bisogno di riforme profonde - la sanità, il lavoro, la giustizia, gli enti locali, il bicameralismo -, non riesce a realizzarne una che sia una? Chi o cosa ci impedisce di restare al passo con l'Europa migliore?

Sono andato a cercare qualche risposta in letture antiche e sono incappato in John Locke e nella sua definizione di Stato, di cui avevo confusa memoria. Su un testo universitario ho trovato una sua definizione di oltre trecento anni fa che m'è parsa attualissima, riassunta così: "...quando il Parlamento, cui compete di conservare la volontà della maggioranza del corpo sociale, cambia, si divide o si scioglie, a seguirne solo solo la dissoluzione o la morte del corpo sociale stesso, non più libero di esprimere la propria volontà". Poi ho letto "Hanno ammazzato Montesquieu!" di Alessandro Calvi (Castelvecchi, 14 euro, in libreria da qualche settimana), che propone un'analisi della crisi istituzionale aggiornata agli ultimi mesi. In particolare, evidenzia alcuni fenomeni che appaiono innegabili una volta individuati: i decreti (le norme di emanazione governativa che il Parlamento può solo convertire o respingere) costituiscono da un ventennio (rieccolo!) la gran parte del prodotto legislativo italiano; le Camere sono svuotate dei loro compiti primari; gli scandali hanno ridotto ai minimi termini la credibilità e l'autorevolezza degli eletti. In questa situazione, l'esecutivo e il giudiziario s'azzannano per occupare gli spazi lasciati liberi dal legislativo. Detto in modo semplice: mentre il Parlamento collassa, gli altri due poteri fondamentali si fanno la guerra. Locke l'aveva previsto, la conseguenza è "la dissoluzione del corpo sociale". Calvi, raccontando e studiando la politica italiana di questi anni, dimostra che la repubblica parlamentare progettata dai costituenti è la migliore e funziona solo se c'è il bilanciamento dei poteri. Cosa che non è.

Fosse qui ora, il più pessimista dei miei amici dell'altra sera sbotterebbe: queste cose Grillo le dice da sempre. Al che ribatterei: anche le sollecitazioni correttamente motivate - mi riferisco al Movimento 5 Stelle - se confusamente tradotte in azioni politiche non fanno che accelerare la dissoluzione. E l'altro amico allora aggiungerebbe: solo Renzi ha oggi la capacità di trasformare le critiche in azioni positive. Forse sì. Ma - chiederei - quanto l'Italia ha subìto per vent'anni e subisce ancora adesso non prende le mosse proprio dalla personalizzazione della politica - Berlusconi, Di Pietro, Fini, Monti, Grillo, ora Renzi - con forte accento salvifico e ineludibile riflusso anti-parlamentare? O non è piuttosto il momento di scendere in campo tutti, senza più affidarci a un uomo solo come accadde il 26 gennaio 1994? "Fai troppe domande e dai poche risposte", chioserebbe il primo. E ce ne andremmo tutti a letto.
Twitter @claudiogiua










domenica 7 luglio 2013

Perché eliminare le province potrebbe essere un errore


Da Repubblica dell'8 luglio 2013
di ILVO DIAMANTI


È singolare,  ma  anche significativa, 
la vicenda  delle  Province. Da oltre 
trent’anni si parla di cancellarle 
o,  comunque, di ridurle  sensibilmente.  
Con effetti del tutto opposti. Erano, 
infatti, 95 negli anni Settanta. E già
 si parlava di “abolirle”. Rimpiazzarle 
con altrienti  intermedi.  Negli  anni
Novanta sono salite a 103. E oggi 
sono divenute 110. Il problema è che
 le Province non sono  solamente  
ambiti  amministrativi e di governo loca-
le,  ma  rappresentano,  da sempre, un
riferimento dell’appartenenza  territoriale
 per le persone.

Insieme alle città e almeno quanto
le Regioni, le Province servono a
“posizionarci”  e  a  definirci,  ri-
spetto agli altri “italiani” (come ri-
levano le indagini di Demos pubblica-
te, da quasi vent’anni, su Limes). An-
che perché costituiscono sistemi ur-
bani,  economici,  sociali  e,  in  parte,
politici omogenei. Non a caso le map-
pe elettorali che realizzo, da tanti an-
ni, dopo ogni elezione hanno, come
base, le Province. E, almeno fino a ieri,
hanno riprodotto e dimostrato la so-
stanziale  continuità  dei  comporta-
menti di voto, nel corso del dopoguer-
ra.  Coerentemente  con  i  lineamenti
economici e sociali del Paese. E delle
sue province.

Anche per questo, invece di ridursi e
di accorparsi – o di venire ridotte e riac-
corpate  –le  Province  sono  sensibil-
mente cresciute, di numero, negli ulti-
mi vent’anni. Perché delineano riferi-
menti  importanti della storia e dell’i-
dentità sociale. Ma anche del potere lo-
cale. Perché, inoltre, coincidono con si-
stemi burocratici e assemblee elettive,
molto  difficili  da  ridimensionare,  a
maggior ragione: da cancellare. Tanto
più che le Province hanno svolto e svol-
gono compiti importanti su base loca-
le. Fra gli altri: in materia di trasporti,
ambiente, edilizia scolastica. E poi: co-
stituiscono il principale ambito di “me-
diazione” fra i Comuni e le Regioni. So-
prattutto per i Municipi più piccoli, si
tratta di istituzioni utili ad accorciare le
distanze dai centri del Potere Stato-Re-
gionale. 

Per questo, fin qui, è sempre risul-
tato difficile cancellare le Province o,
almeno,  ridurne  il numero. E,  anzi,
mentre si discuteva in quale modo e
misura ridimensionarle, si sono, in-
vece, moltiplicate ancora. D’altron-
de,  l’abbiamo  detto,  costituiscono
dei luoghi di potere. Dove sono inse-
diati attori politici, burocratici e so-
cioeconomici  poco  disponibili  a
scomparire, oppure a farsi riassorbi-
re in altri ambiti istituzionali e di po-
tere. 

C’è  poi  un’ulteriore  questione.  Ri-
guarda la singolare via del federalismo
all’italiana. Che si è sviluppata, dagli an-
ni Novanta in poi, attraverso il trasferi-
mento  –  e  talora  la duplicazione  – di
compiti e attribuzioni dal Centro alla
Periferia.  Dallo  Stato  agli  enti  locali.
Non solo: attraverso la moltiplicazione
dei centri e dei gruppi di potere locali.
Un processo di cui è stata protagonista
la Lega, ma non solo. Anche per questo
i progetti volti a riassorbire le Province
hanno avuto vita dura. Perché  i mag-
giori  partiti  e,  per  prima,  la  Lega  nel
Nord si sono opposti alla prospettiva di
perdere “potere” e risorse sul territorio.
E, a questo fine, hanno brandito e agita-
to a bandiera del Federalismo. Dell’Au-
tonomia Locale contro lo Stato Centra-
le. 

Non è un caso, dunque, che l’attacco
definitivo (così almeno si pensava) all’I-
talia delle Province sia stato lanciato un
anno fa dal Governo “tecnico” guidato
da Mario Monti. Per ragioni “tecniche”
molto ragionevoli, orientate dalla spen-
ding review. Dalla necessità di revisione
e riduzione della spesa pubblica. Visto
che  il collage provincialista del nostro
Paese è divenuto, come si è detto, sem-
pre più oneroso e dissipativo. Non è ca-
suale l’iniziativa di un anno fa. Dettata
dall’emergenza. Favorita dalla  “debo-
lezza”  politica  degli  attori  che  hanno
agitato  la bandiera del  territorio negli
ultimi  vent’anni.  Per  prima  la  Lega,
affondata,  alle  elezioni  recenti.  E  ag-
grappata alle Regioni del Nord, dove è
ancora al governo. D’altronde, la Que-
stione Settentrionale appare silenziata.
Messa a tacere dalla Questione Nazio-
nale  imposta dalla Ue e dalle autorità
economiche e monetarie internaziona-
li. Che esigono risparmi e tagli. E hanno
rovesciato  le  gerarchie  geopolitiche,
sotto-ponendo la periferia al centro. Il
territorio ai poteri della finanza e della
politica globale.

Così, l’Italia Provinciale è divenuta un
problema. Trattata come un vincolo di
spesa, una variabile dipendente da con-
trollare e orientare. Il governo Monti ha,
dunque, proceduto, dapprima, all’abo-
lizione dei consigli provinciali e, quindi,
a una sostanziosa riduzione del nume-
ro delle Province (da 86 a 50, nelle Re-
gioni a statuto ordinario). Per decreto
legge, con procedura d’urgenza. In ba-
se, appunto, a motivi di emergenza. Pro-
cedure  e motivi  non  compatibili  con
una  materia  “costituzionale”,  com’è
quella  dell’organizzazione  territoriale
dello Stato. Di cui le Province sono par-
te integrante. 

Così l’Italia Provinciale resiste ed esi-
ste ancora. Malgrado i tentativi e la vo-
lontà espressa da molti, diversi soggetti
politici  ed  economici,  di  ridimensio-
narla.  D’altronde,  due  italiani  su  tre
pensano che le province andrebbero al-
meno ridotte. Ma il 60% è contrario ad
abolire la Provincia dove vive (Sondag-
gio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In
altri termini: gli italiani sono disposti a
“cancellare” o, comunque, a mettere in
discussione la provincia degli altri. Ma
non la propria. Per questo non sarà faci-
le, al governo guidato da Enrico Letta,
abolire le Province dal lessico geopoliti-
co nazionale, come prevede il Ddl costi-
tuzionale, approvato nei giorni scorsi.
Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo
l’organizzazione ma, insieme, la stessa
identità territoriale del Paese. Perché le
Province, per citare Francesco Merlo,
sono il Dna «che in fondo ci rende tutti
uguali, provinciali tra altri provinciali».
Da Nord a Sud, passando per il Centro.
E  perfino  a  Roma.  L’Italia:  Provincia
d’Europa e dell’Euro. Un Paese di com-
paesani (come l’ha definito il sociologo
Paolo Segatti). Punteggiato di campani-
li e municipi. Unito dalle differenze. L’I-
talia Provinciale e Provincialista: riflet-
te  tendenze  di  lunga  durata.  Difficil-
mente verrà sradicata da un governo di
larghe intese. E, dunque, di breve perio-
do.