domenica 3 marzo 2013

Perchè anche adesso, nell'era delle start up, abbiamo da imparare da New York

dalla Stampa di domenica 3 febbraio 2013

Pubblichiamo la prefazione di Carlo De Benedetti al
libro Tech and the City - Startup a New York. Un mo-
dello per l’Italia di Maria Teresa Cometto e Alessan-
dro Piol, in libreria il 7 marzo (Guerini e Associati,
22 euro).

Basato su 50 interviste con i protagonisti
della comunità tecnologica di New York, il libro rac-
conta come la città si è ripresa più in fretta dalla
Grande Recessione rispetto al resto d’America gra-
zie al suo spirito imprenditoriale e all’impegno del-
l’amministrazione Bloomberg a puntare sull’inno-
vazione.

Così New York è diventata la nuova capitale
mondiale delle startup: è un modello replicabile an-
che in Italia? Se lo chiedono gli autori, da anni resi-
denti nella Grande Mela – Cometto come giornalista
che scrive di business e tecnologia per il Corriere
della Sera, Piol come venture capitalist e mentore di
giovani startupper - ; e forniscono anche una guida a
chi pensa di andare a New York per lavorare nel set-
tore high-tech oppure a studiare.



di CARLO DE BENEDETTI

Ci sono luoghi dove l’uomo
mette meglio a frutto al-
cune sue attitudini. A Ge-
rusalemme e Varanasi la
fede e la spiritualità
s’esprimono in forme altrove impen-
sabili. Per più d’un secolo, a cavallo
tra XIX e XX secolo, le arti figurative
erano a Parigi o non erano. E lo stes-
so accadde in Italia lungo tutto il Ri-
nascimento e oltre. Da cinquant’an-
ni a Hong Kong e Londra vengono
coltivati e curati amorevolmente ef-
ficaci ecosistemi per il denaro e gli
investimenti. La Mitteleuropa è sta-
ta la più prolifica fucina della lette-
ratura del Novecento. A Boston han-
no casa e bottega le più lucide teste
della ricerca scientifica.

Ci sono poi luoghi dove il continuo
apporto di intelligenza ed entusia-
smo rende possibili diverse e mute-
voli avventure umane. Luoghi che
definirei «interdisciplinari». È il ca-
so di New York: non c’è città al mon-
do che abbia saputo incarnare al-
trettanto bene molti zeitgeist moder-
ni, gli spiriti del tempo di economia,
spettacolo, cultura, fashion trend, in-
formazione. Nel secondo dopoguer-
ra sapere cosa stava succedendo a
New York ha significato sapere cosa
sarebbe successo altrove.

È tuttora così. Anche quando sem-
bra che New York abbia perso il treno
della modernità, scopri che era salita
a bordo, eccome. È il caso di Internet,
che a lungo abbiamo pensato avesse
Silicon Valley come esclusiva tech-
nursery americana, quasi che solo lì
un’idea digitale avesse qualche possi-
bilità di crescere e talvolta imporsi.
Invece Maria Teresa Cometto e Ales-
sandro Piol, newyorchesi per scelta
convinta, ci raccontano come nella
Grande Mela ci si stesse attrezzando
per riprendere la leadership digitale
solo temporaneamente ceduta. Ope-
razione conclusa, visto che la migra-
zione dei nerd tra le due coste sta in-
vertendo direzione, e ora si va di più
da Ovest verso Est, dalla Silicon Val-
ley alla Silicon Alley.

Quel che mi ha sempre colpito di
New York è la sua capacità di rinno-
varsi. Fu così negli Anni 70, quando la
città affrontò il fallimento virtuale
dell’amministrazione comunale, è ac-
caduto di nuovo nel 2001 dopo l’afflo-
sciarsi della bolla digitale e nel 2008
con il crollo seguìto alla crisi dei sub-
prime e all’esecuzione esemplare di
Lehman Bros. Le crisi a New York
passano prima perché la città dispo-
ne di risorse altrove scarse, come ho
potuto constatare personalmente in
tanti anni di frequentazione costante
delle sue comunità degli affari e della
produzione. A quelle più classiche - la
predisposizione al rischio imprendi-
toriale, la creatività, la concentrazio-
ne di competenze - la città ha aggiun-
to negli ultimi anni nuove risorse:
l’entusiasmo di chi si sente parte della
locale affluente società di Internet e
si impegna al massimo per farla cre-
scere, l’operosità di un’amministra-
zione pubblica amica dei nuovi im-
prenditori e impegnata in una campa-
gna per valorizzarli.

Nella stagione della Rete a mar-
chio newyorchese (che sarà lunga) c’è
una parola - startup - che è simbolo di
una dimensione imprenditoriale per
sua natura inafferrabile perché pro-
teiforme. Le startupmettono natural-
mente insieme innovazione, business
e giovani in infinite variazioni tecno-
logiche, culturali, economiche. Ma il
mix funziona soltanto in condizioni
particolari, che in California sono state
la concentrazione in un’area limitata di
università come Stanford, di investitori
in cerca di aree di sviluppo non tradi-
zionali, di comunità locali attraenti. Il
boom delle startup newyorchesi ha in-
vece le sue radici nelle «vecchie» indu-
strie dei media, della pubblicità, della
moda e della finanza, che hanno avver-
tito con colpevole ritardo la necessità
di digitalizzarsima che poi hanno adot-
tato in massa le nuove tecnologie rivo-
luzionando i proprimodelli di business.

Il «fattore giovani» è quello unifi-
cante tra le Silicon Valley e Alley per-
ché in America c’è da sempre grande
rispetto delle idee dei giovani. Tutte le
startup di New York descritte da Co-
metto e Piol sono ideate e guidate da
ventenni e trentenni, mentre le gene-
razioni più «vecchie» - a volte solo di
dieci anni - si adoperano per fare loro
da mentore. Molto diffusa è la pratica
del give back, del restituire agli altri e
alla società qualcosa che si è ricevuto
nella fase di costruzione della propria
fortuna imprenditoriale. Un atteggia-
mento solidale così pervasivo da aver
bisogno di organizzazioni che si occu-
pano di facilitare questo tipo di volon-
tariato.

Una condizione favorevole che
in Italia non esiste. Da noi l’entusiasmo
dei giovani viene soffocato per tenere
il posto agli anziani, perdendo così per
strada intere generazioni di talenti, i
migliori dei quali devono per forza an-
dare all’estero per avere successo o co-
struire il loro sogno. E New York è ben
contenta di accoglierli.

Quella raccontata da Cometto e Piol
è la storia corale di una città-startup,
dove a parlare sono i protagonisti e le
aziende con le sue nuove idee trainanti.
Ma leggendola viene da chiedersi per-
ché qualcosa di analogo, seppure in
scala ridotta, non possa avvenire da
noi. A Milano o a Torino, per esempio.

Faccio al proposito
tre considerazioni.
La prima è che il
ruolo dell’ammini-
strazione pubblica
è essenziale: è il se-
ed, come lo chiama-
no a New York. Il sindaco Michael
Bloomberg e i suoi principali collabo-
ratori, alcuni dei quali conosco perso-
nalmente, hanno messo tra le proprie
priorità la creazione di private/public
partnership per riformare i sistemi
educativi e la costituzione di fondi di
investimento che facciano partire
nuovi settori industriali. I governi cen-
trale e locali italiani non s’impegnano
invece per creare adeguate condizioni
per le startup e a favorire partner pri-
vati che ci mettono il resto.

La seconda considerazione è che in
Italia la semplicità spaventa perché
aiuta tutti a concorrere. Dunque, anzi-
ché eliminare barriere, cooperare, fare
sistema - la cultura dell’open source - si
fa il contrario, s’alzano ostacoli, l’infor-
mazione diventa potere, lo scambio di
esperienze è malvisto dalle aziende, gli
oligopoli vengono tutelati. Milano e la
Lombardia avrebbero dovuto sfruttare
il volano dell’Expo 2015 per lanciare
concorsi di idee per aziende innovative
abbattendo ostacoli e liberando ener-
gie. Non è successo. Ma forse c’è anco-
ra tempo per fare qualcosa.

Infine, il caso New York non è copiabi-
le. Va studiato e assimilato. Ne va assor-
bito lo spirito creativo. Va reinterpreta-
to in chiave italiana. Senza illusioni, pe-
rò: un tempo la creatività eramerce eli-
taria, oggi la globalizzazione sparge i se-
mi dell’innovazione nella griglia infinita
della Rete, l’iniziati-
va vincente può na-
scere aTashkent o a
Bangalore, tanto
per citare due luo-
ghi dove davvero s’è
fatto molto per - co-
me dire? - anticipare il futuro.

Siamo al punto di partenza: il genius
loci può essere decisivo, però si deve
anche sapere che quasi mai basta. La
mia posizione è nota: per ripartire biso-
gna (ri)mettersi in gioco. Siamo tutti
esposti a tutto, in un regime di comuni-
cazione orizzontale, in una competizio-
ne di idee, soluzioni, proposte che è il
nuovo modo di fare business. Sapendo
che il più grande fattore di innovazione
è la volontà di migliorare il proprio de-
stino. È stato sempre così.


Nessun commento:

Posta un commento